Psicologa Dott.ssa Debora Battani

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Ho immaginato questo spazio come spazio-tempo di riflessioni, da arricchire o modificare con e nell'esperienza.

Come afferma Bion “apprendere dall'esperienza” è fondamentale per trasformare gli elementi Beta, grezzi, in alfa, lavorati e arricchiti.

Penso che questo processo duri tutta la vita. Anzi me lo auguro!

 

Per il momento desidero condividere:

  • le riflessioni fatte a seguito di una ricerca svolta presso il reparto di medicina riabilitativa dell’Ospedale di Forlimpopoli (FC) nel periodo settembre 2009 – febbraio 2010. La ricerca mirava a capire meglio il rapporto tra le malattie e le emozioni provate dai malati, anche a seconda della patologia fisica. La ricerca è stata effettuata con l'ausilio del “State-Trait Anxiety Inventory (S.T.A.I.)”

  • le riflessioni fatte sulla terapia occupazionale intesa come spazio del fare, di sperimentazione protetta. Credo che le persone attraverso “le attività”, possono migliorare il proprio approccio al mondo, scoprendo potenzialità non ancora emerse o migliorando quelle deficitarie.

  • la tesi della mia specializzazione scritta con la Dott.ssa Alessia Renzi

  • Obesità: una malattia cronica che si può combattere con sinergie mediche. A Forlì l’esempio della terapia occupazionale tramite laboratori espressivi

  • Pnei: paura e immunita’, quando la guarigione e' possibile?

  • A tutto tondo

 


L’ANSIA, MALATTIA E  RICOVERO

una ricerca effettuata presso la degenza u.o. medicina fisica e riabilitazione - Ausl Forli’ -ospedale di Forlimpopoli

Allo scopo di capire meglio il rapporto tra le malattie e le emozioni che sperimentate dai malati, il reparto di medicina riabilitativa dell’Ospedale di Forlimpopoli (FC) ha proposto ai pazienti ricoverati la partecipazione ad un’attività di ricerca.

Tale collaborazione si è realizzata in maniera anonima e volontaria tramite la somministrazione dello S.T.A.I., che è stato presentato come un questionario di valutazione della personalità.

I questionari sono stati somministrati dalla tirocinante psicologa* con la supervisione della psicologa del reparto, e lo studio prende avvio dall’aver osservato che di frequente, nei pazienti con disabilità acquisita temporanea o definitiva, si possono verificare sindromi ansiose o depressive, disturbi dell’adattamento, difficoltà di esprimersi e preoccupazioni per il futuro, che possono condizionare i rapporti con gli altri o lo stato di salute complessivo.

L’ipotesi di partenza è che ci possa essere una correlazione tra lo stato di malattia e l’ansia.

Raccogliere una quantità di dati ampia ed eterogenea, date le differenze tra i partecipanti in termini di età, aspetti culturali, sociali e di patologia, permetteva a nostro avviso di avere una rappresentatività più reale del rapporto esistente tra malattia ed ansia.

Campione: Per quanto riguarda la popolazione esplorata, hanno partecipato 67 pazienti, 24 uomini e 43 donne, nel complesso di età compresa tra i 23 e gli 86 anni, ricoverati nel periodo tra Settembre 2009 a Febbraio 2010.

Di queste persone il 70% ha una diagnosi di natura ortopedica, il 18% circa di natura neurologica (ictus, aneurismi, ecc), il 9%  incidente, il restante problematiche di tipo oncologico.

Guardando il campione per intero, l’età media dei partecipanti risulta  65 anni e una distanza dall’evento di circa 30 giorni e una prognosi buona nel 82% delle situazioni.

Tendenzialmente le persone con problematiche di tipo ortopedico hanno una degenza di circa 15 giorni e arrivano a seguito dell’operazione in tempi brevi, mentre le persone che hanno avuto eventi più complessi possono permanere in reparto fino a 2 mesi e arrivare in tempi molto più estesi a seconda delle condizioni internistiche precedenti.

Premessa

Il corpo, “strumento primario per costruire la propria identità”, riconosciuto malato, riceve le cure del caso: una percepita inadeguatezza diagnostica e assistenziale, un dubbio di funzionalità, rompono l’equilibrio e possono scatenare il vissuto ansioso.

Il paziente ricoverato deve affrontare il reparto ospedaliero, con il suo ambiente microsociale diverso dall’ambiente domestico; deve far fronte alla minaccia tangibile alla salute, che il ricovero sottolinea; perde infine, a causa della condizione di malato, il controllo del ruolo, dell’immagine, della relazione interpersonale.

Gli ospedali sono comunita’ che per funzione alimentano l’ansia anche in soggetti che non presentano quadri psicopatologici di personalita’.

I pazienti sono in apprensione non solo per il loro stato di salute, ma anche per il benessere delle loro famiglie; tra di essi, chi deve essere sottoposto ad un intervento chirurgico, affronta in aggiunta anche la minaccia fisica e psichica di un’operazione.

Il ricovero in ospedale implica la perdita dell’indipendenza, la separazione dalla famiglia, routine e procedure sconosciute ed inevitabili timori circa il proprio stato di salute. La stabilita’  cede il posto all’insicurezza e la famiglia e gli amici divengono visitatori.

Alcuni studi hanno evidenziato, quali fattori stressanti nel corso di un ricovero in ospedale, la lontananza dalla famiglia, l’assenza dal lavoro, la malattia, l’apprensione per una cura che s’immagina dolorosa, la vista di un paziente molto ammalato, gli esami clinici, l’uso della padella e la notte.

Ricerche mettono in luce in aggiunta che nel ricovero il paziente prevede indifferenza, lontananza, ostilità da parte del personale sanitario e degli altri malati. I disturbi ansiosi, che sono uno dei primi segni dello stress dell’organizzazione fobica, sono anche l’espressione dell’attesa, della frustrazione inevitabile, del rifiuto che si ritiene seguirà la richiesta di aiuto: una struttura o un personale sanitario molto accudenti scatenano potenti attaccamenti, mitizzazione. L’attesa del rifiuto e della frustrazione produce comprensibilmente preoccupazione pessimistica, tensione, depressione dell’umore e turbe somatiche del sonno.

Un tipo di organizzazione cognitiva particolarmente vulnerabile all’evenienza del ricovero è quello di tipo fobico per il quale i timori più frequenti consistono nella scarsa capacità di affrontare il mondo sociale e fisico, nelle minacce alla salute fisica e mentale e nella perdita del controllo.

Emozioni e dolore

Ancor più difficile risulta l’esperienza per le persone che provano dolore. L’ Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) afferma che il dolore e’ un’esperienza emotiva e sensoriale spiacevole, associata ad un danno tissutale in atto o potenziale.

L’espressione emotiva e’ parte integrante del dolore: la coloritura emotiva, unitamente alla valutazione personale dell’esperienza, conferiscono al dolore la dimensione piu’ globale della sofferenza.

Del dolore possiamo inoltre dire che si tratta di un’esperienza personale e privata, comune a tutti gli individui e tuttavia sempre unica. Il modo in cui un individuo reagisce al dolore e’ estremamente complesso e modulato da tanti fattori (emotivi, culturali..); varia considerevolmente da un individuo all’altro ed anche, per quanto riguarda la stessa persona, in circostanze diverse.

La reazione al dolore presenta manifestazioni fisiologiche (ad es: pallore, pressione alta, tensione muscolare, nausea, irrequietezza) e reazioni nel comportamento: se le prime sono spesso rintracciabili in quasi tutti gli individui, le seconde variano molto da un soggetto all’altro. Infatti, le condizioni fisiche, lo stato emotivo ed il modo in cui una persona e’ stata condizionata a reagire alle situazioni di stress, influenzano le sue reazioni al dolore.

La soglia del dolore, cioe’ il limite dopo il quale uno stimolo nocivo viene percepito come dolore, e’ in prima linea di natura fisiologica. La tolleranza verso il dolore, cioe’ la durata nel tempo e l’intensita’  del dolore che una persona accetta prima di avere una reazione, verbale o non verbale, al dolore e’ invece grandemente influenzata da fattori psicologici e socioculturali.

Tra i fattori emotivi che possono incidere sul dolore troviamo l’ansia e la depressione.

Un’analisi della letteratura non consente di definire una chiara relazione tra ansia anticipatoria e dolore: talora l’ansia incrementa il dolore, talora non sembra avere alcun impatto su di esso. Discusso e’ anche il rapporto di causalita’  tra dolore ed ansia: dolore ed ansia possono contribuire l’un l’altro, in un circolo vizioso.

In tutto il regno animale, l’ansia ha la stessa importanza delle pulsioni primarie come la fame, la sete per la conservazione della specie. Tutta l’esistenza dell’individuo e’ centrata sull’allarme, inteso come percezione di pericoli provocati da agenti esterni o interni, e sulle relative azioni di lotta o di fuga: l’ansia, come il dolore, fa parte di questo complesso sistema di allarme.

L’ansia deriva dalla consapevolezza di ciascuno di noi di non avere un sufficiente potere di controllo sul mondo (esterno od interno) e di non poterne predire le conseguenze.

Per quanto riguarda il rapporto tra ansia e dolore, possiamo parlare di parallelismo e di sinergismo: ambedue, lo abbiamo visto, rappresentano un sistema di allarme, la prima sul versante psichico, il secondo su quello somatico. I substrati anatomici sono in parte coincidenti (ad es. sistema libico, sistema nervoso autonomo, ecc.), i correlati neurochimici utilizzano comuni mediatori. Entrambi poi hanno un carattere pulsionale che obbliga l’individuo ad impegnarsi in un comportamento finalizzato al loro allontanamento od alla loro neutralizzazione. Non stupisce quindi che l’ansia svolga una funzione sinergica nei confronti della percezione dolorosa, agendo da amplificatore del messaggio nocicettivo. Benchè l’ansia sia piu’ comunemente associata al dolore acuto, può essere una componente del dolore cronico.

L’ansia può anche diventare una modalita’  espressiva di una persona (“ansia di tratto”): in questo caso condiziona una soglia del dolore diminuita, esalta il dolore sebbene la persona che soffre, sappia sempre localizzare il dolore in maniera precisa.

Il dolore cronico e’ frequentemente associato a depressione, piu’ o meno severa: la sua severita’  sembra infatti essere un buon predittore dell’intensita’  del dolore e della lamentela del dolore. Talvolta eventi stressanti maggiori, vissuti come perdite reali o fantasmatiche (ad es. morte o malattie gravi di familiari stretti, grave malattia personale, perdita di qualcosa percepito come molto importante) possono agire come precursori o antecedenti di affezioni dolorose croniche, come le cefalee. E capita che curando una cefalea emerga frequentemente una sintomatologia chiaramente depressiva.

Da un punto di vista psicodinamico, pazienti con dolore cronico e depressi condividono l’incapacita’  a modulare ed esprimere sentimenti intensi ed inaccettabili. Non di rado tali pazienti percepiscono infatti il dolore come colpa. Nei depressi, il dolore viene a perdere la funzione di “segnale corporeo localizzato” divenendo un dolore corticalizzato, un dolore psichico, che si trasforma in una preoccupazione esistenziale. Il comportamento nella depressione grave, che spesso ricorda il comportamento dell’animale ferito che si lascia morire, porta a trascurare il dolore come segnale, ma lo trasforma in una causa di disperazione, rischiando di far perdere le capacita’  critiche nei confronti della sintomatologia stessa.

Una caratteristica personologica riscontrabile in pazienti con dolore cronico e’ la cosiddetta alessitimia, termine che indica l’incapacita’  di esprimere e verbalizzare i propri sentimenti e le proprie emozioni. I pazienti alessitimici sono portati a soffrire un dolore “nel corpo” dal momento che non sanno vivere le loro emozioni “dolorose” in altro modo.

L’alessitimia, nei pazienti algologici, e’ strettamente associata ad una quasi delirante convinzione di malattia “organica” e ad una forte, spesso insuperabile, ed inconscia resistenza a riconoscere il potenziale ruolo di fattori psicologici nella genesi, perpetuazione o scatenamento/aggravamento del dolore anche quando questo risulti evidente.

L’alessitimia non rappresenta solo un’incapacita’  di verbalizzare le proprie emozioni e di associarle ad eventi significativi ma e’ contemporaneamente un’utile condotta controfobica, una difesa psichica, finalizzata a focalizzare l’attenzione sul sintomo somatico e non su quanto avviene nel proprio Sè: il dolore somatico rappresenta quindi l’”esteriorizzazione” di un’angoscia piu’ profonda.

Tanti fattori possono influire sull’esperienza del dolore anche legati alla permanenza in ospedale come abbiamo visto. Alcuni pazienti tendono ad essere ansiosi e preoccupati per l’eventualita’  di errori e/o negligenze durante il ricovero. La mancanza di privacy può essere un ulteriore motivo di ansia e contribuire alla percezione del dolore fisico e morale.

Inoltre, la mancanza d’informazioni, agendo come mezzo d’incremento dell’ansia, può provocare maggior dolore e sofferenza. Durante il ricovero, il problema della comunicazione e dell’informazione, deve essere considerato come elemento importante, all’interno della relazione medico-paziente ed infermiere-paziente, per ridurre il livello di ansia.

Nel personale sanitario, invece, il dolore viene spesso considerato una conseguenza inevitabile della malattia e, proprio perchè e’ un fenomeno atteso, non sempre viene accolto o sedato. In altri casi la mancata sedazione può derivare da convinzioni errate rispetto ai farmaci o ai loro effetti collaterali.

Sul piano psicologico, la presenza di dolore fisico introduce ad esempio nel paziente con patologia in fase terminale, un ulteriore ed insopportabile livello di perdita. Infatti, il dolore fisico priva il malato della residua possibilita’  di godere e vivere pienamente l’ultimo periodo della vita. Inoltre, la presenza di una sindrome dolorosa induce, anche nei familiari, reazioni che compromettono un sereno rapporto con l’ammalato portando alla mente, talvolta con violenza, sentimenti di paura, di colpa e di perdita.

L’insorgenza di patologie psichiatriche e’ piuttosto frequente nel malato con dolori cronici maligni: secondo alcuni studi, il 13% dei pazienti affetti da cancro presenta una depressione maggiore ed il 4% uno stato d’ansia conclamato. La presenza del dolore intensifica notevolmente il livello d’ansia che in genere accompagna la malattia, l’incertezza continua e l’incapacita’  d’interpretare il segnale doloroso mantengono poi in costante stato di allarme l’organismo con conseguenze che coinvolgono anche il sistema immunitario. Infatti, i pazienti con dolori persistenti, hanno una vita significativamente piu’ breve rispetto ad ammalati terminali che non soffrono sindromi dolorose.

Secondo Sandler, il dolore psichico deriva dalla discrepanza rappresentazionale del gap che si trova tra il Sè e l’ideale del Sé, è un elemento comune a tutti gli stati affettivi spiacevoli e  ogni dolore è psichico prima di tutto. Il passaggio da ”dolore psichico” a ”dolore fisico” avviene per spostamento di aspetti della rappresentazione del Sè verso la rappresentazione di un danno fisico oppure è una soluzione molto funzionale per pazienti che non riescono a sopportare l’umiliazione (es: per le persone con aspetti narcisisti il dolore fisico crea una ‘motivazione’ accettabile)

Una delle conseguenze del dolore può essere la depressione, in seguito al fallimento di ogni tentativo atto alla riduzione di quest’ultimo oppure si tratta di uno stato clinico misto in cui non si giunge ad una soluzione difensiva stabile

“E quando il corpo anatomico ci è infedele, ci mette in scacco, ci tradisce, quando non ci riconosciamo nel “nostro corpo”, come se esso non ci rappresentasse come vorremmo, ecco che ci sentiamo vulnerabili, esseri mutanti nel mondo, sottoposti ad un divenire inarrestabile a cui non possiamo sottrarci. Il corpo malato, e le sue ferite, rimandano ad un altrove che «trascende il corpo, fanno appello ad una ricerca di senso insito nella minaccia della malattia e nel possibile disfacimento del corpo.” Tomellini

Al corpo si chiede di rappresentare un’immagine, un ideale di perfezione che lo renda uno fra tanti, un eguale a modelli infiniti di corpi levigati, tonici, sottratti al divenire, perennemente giovani.

L’evento malattia introduce nel fluire della vita una scansione insopportabile; apre un varco al pensiero della morte, fa uscire il corpo dal “silenzio”, lo porta prepotentemente in prima pagina, lo rende percepibile come ostacolo al mito dell’elisir di lunga vita.

Nella cultura attuale la malattia, il dolore fisico, la sofferenza psichica, la vecchiaia, sono negate e in quanto tali risulta più difficile conviverci.

L’ansia come problema psicologico

“E’ difficile negare il fatto che il mondo sia praticamente intriso di ansia. Essa comincia già dall’infanzia con la paura dell’ignoto e prosegue per tutto l’arco dell’esistenza concludendosi ancora con la paura della morte.” Dott. Di Giuseppe Luigi

Molteplici sono le ragioni esistenziali e sociali che possono ingenerare situazioni d’ansia nelle persone ma solo recentemente, col sorgere ed il perfezionarsi della psicologia clinica, ci si è resi conto della sua incidenza nella vita dell’uomo.

L’ansia è uno stato affettivo così generale e radicale nell’uomo che può essere considerato non tanto un sintomo o una sindrome delimitata, quanto una modalità di esistenza i cui estremi entrano nel dominio della psicopatologia partendo da sentimenti di aggressività, di inquietudine, di paura.

Il Dizionario di Psichiatria pubblicato a cura dell’ “American Psychiatric Association” (1978) definisce l’ansia come uno stato “di apprensione, di tensione, di disagio che scaturisce dall’anticipazione di un pericolo, la cui provenienza è in gran parte sconosciuta o non riconosciuta”.

Invece viene definita dallo Zingarelli: "Stato emotivo spiacevole, accompagnato da senso di oppressione, eccitazione e timore di un male futuro, la cui caratteristica principale è la scomparsa o la notevole diminuzione del controllo volontario e razionale della personalità". Essa è legata allo stress. Alcuni studiosi hanno identificato lo stato ansioso nella tensione dolorosa tra la parte emotiva e quella cognitiva dell’individuo. L’ansia scatena quindi un vero e proprio disordine psico-ormonale, che produce uno stato insostenibile di grande difficoltà adattativa, oggi sempre più presente, nell'ambiente artificiale della società industrializzata. Alti livelli d’ansia sono caratterizzati, essenzialmente, da una grande irrequietezza e da penosi sintomi.
Il manuale di classificazione dei disturbi psichici D.S.M. VI li elenca: dispnea; palpitazioni cardiache; dolori al torace; sensazione di affogare o di essere soffocato; sbandamenti, vertigini, o sensazione di non stare bene in piedi; sentimenti di irrealtà; parestesie (formicolii alle mani e ai piedi); improvvise sensazioni di caldo e di freddo; sudorazione; sensazione di svenimento; tremori fini o a grandi scosse; paura di morire, di impazzire, o di fare qualcosa di incontrollato durante l’attacco.
Lo stress, in generale e ancor di più a seguito di una malattia, è la condizione nella quale un organismo si trova quando deve adattarsi a un cambiamento o a una situazione che gli viene imposta. Esso dà luogo ad una ampia serie di sintomi essendo la risposta organismica a tutta una complessità di stimoli considerati pericolosi. Lo stress logorante può portare ad una vera patologia di ansia continua, non strutturata, libera, che investe sia la mente che il corpo.

E' risaputo, scrive Lawrence Steinmam, che "uno stress... può aggravare una malattia autoimmune influendo sull'ipotalamo e sull'ipofisi, i quali a loro volta secernono ormoni che promuovono l’infiammazione. (...) Queste scoperte possono offrire una spiegazione alla ben nota osservazione clinica che l'ansia può aggravare una malattia"

Originariamente intrapsichica, l’ansia si distingue dalla paura, in quanto è la risposta emotiva ad una minaccia o a un pericolo coscientemente riconosciuto e di solito esterno.

L’ansia si accompagna a modificazioni fisiologiche simili a quelle della paura. Essa può essere considerata patologica quando è presente in grado tale da interagire con l’efficienza della vita, il conseguimento di obiettivi, la soddisfazione desiderata e un ragionevole benessere emotivo.

Negli ultimi anni molti studiosi che hanno cercato di risolvere i problemi teorici ed anche pratici relativi all’ansia, fra i quali lo statunitense Raimond Cattell (1961), hanno introdotto una distinzione fra ansia di stato e ansia di tratto, la prima pari ad una situazione momentanea di ansia definita stato e la seconda pari ad un tratto relativamente stabile della personalità del soggetto definita tratto.

Il modello teorico di C. Spielberger

Questa differenziazione fra stato e tratto fu ripresa ed elaborata da Charles Spielberger (1966) e in questo modello l’ansia di stato è caratterizzata da sensazioni soggettive di tensione, apprensione e nervosismo che compaiono assieme all’attivazione del sistema nervoso autonomo. L’ansia infatti dà, come esperienza particolare, un sentimento di insicurezza, di impotenza di fronte ad un danno percepito; può costituire fonte di preoccupazione, oppure può manifestarsi come tendenza a fuggire e ad evitare la minaccia (Baker, 1980). Questo stato può variare, nel tempo, di intensità in relazione agli stress che colpiscono l’individuo.

L’ansia come tratto, invece, si riferisce alla tendenza all’ansia che caratterizza permanentemente singoli individui; in altre parole si tratta della tendenza personale a percepire una vasta gamma di condizioni di vita come minacciose ed a reagire ad esse con ansia eccessiva. Questa tendenza rimane latente finchè non viene resa attiva da stress associati a pericoli particolari.

Il modello di Spielberger, relativo alla distinzione tra stato e tratto e la loro reciproca influenza, può essere così schematizzato:

- quando una situazione è valutata come minacciosa viene evocata una risposta di STATO;

- situazioni o circostanze che sono valutate come rischiose di insuccessi o minacciose per l’autostima saranno percepite con maggiore intensità da soggetti che presentano elevati livelli di TRATTO rispetto a soggetti con bassi livelli dello stesso;

- i ripetuti contatti con situazioni stressanti portano l’individuo a sviluppare dei meccanismi di autocontrollo dell’ansia o di difese attraverso la minimizzazione della minaccia.

Lo strumento “State-Trait Anxiety Inventory (S.T.A.I.)”

Allo scopo di valutare l’ansia, sono stati realizzati molti test psicologici, tra i quali il più utilizzato è lo “State-Trait Anxiety Inventory” (S.T.A.I) di Spielberger, una delle scale d’ansia più usate in campo diagnostico e clinico sia in Italia che nel mondo. Essa è composta da 40 domande alle quali si risponde a crocette e che indagano il “come ci si sente”.

Per la valutazione dello “stato” si richiede ai soggetti di esprimere come si sentono “in questo determinato momento”, attribuendo un punteggio che descrive l’intensità dei loro sentimenti: 1) per nulla; 2) un po’; 3) abbastanza; 4) moltissimo. Invece, per valutare il “tratto”, si chiede di indicare come si sentono “generalmente”, valutando la frequenza con cui provano sentimenti di ansia: 1) quasi mai; 2) qualche volta; 3) spesso; 4) quasi sempre.

La teoria di TRATTO-STATO d’ansia predice una più alta correlazione fra lo STATO e il TRATTO in situazioni di valutazione sociale, e più basse correlazioni in situazioni di pericolo fisico. Inoltre la correlazione fra le scale sembra dipendere dalla qualità dello stress associato con le condizioni nelle quali la scala STATO è somministrata.

Le correlazioni tra le scale STATO e TRATTO risultano più alte in condizioni che pongono qualche minaccia all’autostima, o in circostanze dove viene valutata l’adeguatezza della persona; e le correlazioni sono più basse in situazioni caratterizzate da pericoli fisici. Per lo più, i cambiamenti nello STATO provocati da minacce di pericolo fisico sembrano essere non correlate al livello del TRATTO.

Ipotesi di partenza

Per la valutazione dell’ansia dei soggetti intervistati, si è partiti dalla formulazione di alcune ipotesi, che sono state oggetto di studio.

1) Ci sono differenze significative in base al genere. Si ipotizza una più alta reattività ansiosa tra i pazienti di sesso femminile.

2) Il livello d’ansia misurato dalle due scale cambia in base all’età. Si ipotizza un picco d’ansia nei giovani adulti perché si trovano in una fase di vita caratterizzato dalla progettazione rispetto al futuro e il bisogno di autonomia mentre tra gli anziani è più ipotizzabile che ci sia un’accettazione e un adattamento alla malattia in tempi minori.

3) Ci sono differenze in base al tipo di evento: ortopedico (protesi ginocchio/anca, frattura femore/caviglia, ernia); neurologico (ischemia cerebrale, tetraparesi, emiparesi, paraparesi); oncologico (metastasi ossea, necrosi femore) e incidenti stradali. Si ipotizza un’ansia maggiore nelle persone con problematiche di tipo neurologico, oncologico e incidenti stradali, rispetto a quelle ortopediche,  per il carattere improvviso e minaccioso dell’evento.

4) Il risultato cambia in base alla prognosi (buona, probabili esiti, pazienti cronici). Si ipotizza che l’ansia sia maggiore in funzione della prognosi, in particolare che la presenza di deficit cognitivi peggiori la situazione mentre la cronicità della malattia implichi probabilmente un maggior adattamento e quindi un’ansia minore.

5) Il livello d’ansia dipende anche dalla distanza dell’evento. Si ipotizza che nella fase iniziale del ricovero, subito dopo l’evento, ci siano risposte di ansia più elevate e che tendano a calare con il tempo.

6) Il fatto che in alcuni casi la scala di STATO sia maggiore rispetto a quella di TRATTO (test falsati) è riconducibile alla preoccupazione di essere valutati nella salute mentale. Più alti sono i livelli d’ansia di tratto e più probabile è che un individuo possa sperimentare punte elevate di ansia di stato in situazioni percepite come minacciose, specialmente in quelle che comportano rapporti interpersonali nei quali è ravvisabile una minaccia all’autostima del soggetto.

Aspetti qualitativi della ricerca

La maggior parte delle persone incontrate ha accettato volentieri di partecipare alla ricerca, mostrandosi felice di rendersi utile e allo stesso tempo di passare un po’ di tempo in compagnia.

Solo una persona si è rifiutata palesemente di partecipare, e altre 2 hanno reagito alle domande ‘arrabbiandosi’ e sminuendo l’importanza del questionario, dove una di queste si è addirittura rifiutata di rispondere ad un item (“mi sento bene”). Per una buona percentuale delle persone ricoverate si è ritenuto opportuno, in seguito ad un confronto con il medico fisiatra di riferimento, non somministrare il questionario poiché non erano presenti le condizioni fisiche idonee per partecipare.

A posteriori abbiamo pensato che sarebbe stato interessante tenere il conto delle persone che non hanno partecipato alla ricerca e di quelle che non erano nelle condizioni fisiche per partecipare.

Anche il contributo di familiari sarebbe stato di grande ricchezza ma non siamo riusciti a coinvolgerli.

Durante la somministrazione del questionario è stato riscontrato da più persone la difficoltà a comprendere il significato di certi item (“vorrei poter essere felice come sembrano essere gli altri”, “mi sento disteso”, “mi sento sotto pressione”), specie nelle persone più anziane e in quei pazienti con problemi neurologici.

In queste persone è emersa anche una gran difficoltà ad attenersi ai quattro livelli di risposta previsti dal questionario e la tendenza a rispondere con avverbi di frequenza che ciascuno aveva in mente in quel momento. Questo si è verificato in particolar modo nella prima scala, quella che misura l’ansia di stato (scala più reattiva allo stato attuale, cioè inclusa la malattia).

E’ stato possibile osservare come molte persone abbiano tentato di raccontare qualcosa di sé, qualcosa che veniva evocato da una parola presente nell’item a cui avevano appena risposto, tanto che alcune di loro sono arrivate proprio a parlare di aspetti personali molto intimi e dolorosi (lutti, tentativo di suicidio, malattie, ecc…).

Si è potuto avvertire il bisogno profondo di giustificare le proprie risposte, di motivare la scelta di una risposta piuttosto che un’altra, anche se prima della somministrazione veniva chiarito esplicitamente che non c’erano risposte giuste o sbagliate.

Durante lo svolgimento del questionario, molte persone, soprattutto donne, si sono commosse e lasciate andare in un pianto di sfogo, probabilmente per avvenimenti legati al significato di qualche item, e una delle domande che sembra aver angosciato maggiormente è “mi sento un fallito”. Questo aspetto potrebbe essere in relazione con il tempo 'fermo' che da la malattia per pensare e all'aspetto di bilancio della vita che spesso ne deriva.

Da parte degli uomini, invece, è stato possibile notare maggior imbarazzo e timidezza rispetto le donne, ansia e tensione nella prima scala che si è attenuata e sciolta durante lo svolgimento, come a mettere in luce un atteggiamento più imbarazzato di fronte all’esporsi parlando di sé.

Ipotesi deduttive

Partendo dal presupposto che i dati disponibili sono troppo pochi per fare uno studio statistico, a livello qualitativo è stato possibile riscontrare nel campione generale una bassa percentuale di ansia nella norma e una percentuale alta di test falsati, cioè di test in cui il punteggio dell’ansia di stato è risultato maggiore rispetto a quello dell’ansia di tratto.

Sarebbe stato interessante, anche se di difficile applicazione anche per il breve tempo di permanenza dei pazienti ortopedici in reparto, pensare ad un retest per valutare eventuali cambiamenti nell’andamento dell’ansia nella persona specifica, con il variare del tempo, delle conquiste fisiche, ecc…

I primi dati maggiormente d’impatto sono che l’ansia nella norma è presente solo nel 20% delle persone e che il 49% dei test è risultato appunto falsato malgrado sia un test valicato statisticamente.

Contrariamente a quanto ci si aspettava, non si sono riscontrate differenze significative in base al genere e le donne non hanno manifestato una maggiore reattività ansiosa rispetto agli uomini, anche se è emersa tra questi ultimi un’alta percentuale di test falsati, che mette in luce come sia più difficile al genere maschile dire come ci si sente e ammettere le proprie debolezze, da cui si cerca in qualche modo di difendersi. Coerentemente all’idea sociale gli uomini presentano una maggiore attitudine a difendersi dalle emozioni intense perché percepite come debolezze

Rispetto alla variabile dell’età, è emerso un picco d’ansia anche tra gli anziani, quindi è stato possibile falsificare l’ipotesi iniziale in base alla quale nella fase avanzata della vita ci sarebbe un’accettazione e un adattamento alla malattia in tempi minori. Inoltre man mano che aumenta l’età, si è visto come aumenti anche il numero di test falsati. Le persone più giovani hanno invece un numero minore di test falsati come se fossero più allenati a parlare di emozioni o meno preoccupati che l’evento infici la loro vita, o li metta a confronto con il decadimento fisico irrecuperabile, sinonimo di vecchiaia.

Per quanto riguarda le differenze in base al tipo di evento si è riscontrata una reattività maggiore tra i pazienti con problematiche neurologiche, soprattutto rispetto agli ortopedici. E’ stato possibile osservare come tra le persone con patologia oncologica, anche se sono un numero ridotto rispetto al campione, non ci siano test falsati e come i pazienti che hanno avuto incidenti stradali siano i più giovani ma anche quelli osservati ad una maggior distanza dall’evento. Le persone con una problematica di tipo neurologico, infine, hanno un’età media e sono stati valutati circa ad un mese di distanza dal trauma mentre le persone con patologia ortopedica sono i più anziani ma anche quelli osservati più vicini all’evento.

Rispetto alla prognosi, è stato possibile disconfermare l’ipotesi iniziale rispetto alla quale l’ansia sarebbe maggiore in funzione della prognosi, in quanto anche tra i pazienti con una prognosi buona sono emersi elevati livelli d’ansia. Inoltre le persone che hanno probabili esiti, hanno anche un numero alto di test falsati.

Per quanto riguarda la distanza dall’evento sono stati osservati cambiamenti significativi in funzione di questa variabile e in particolare è stato riscontrato che man mano aumenta la distanza dall’evento, c’è una percentuale più  alta di ansia variata forse parallelamente alla gravità dell’evento.

Infine, rispetto alle persone con supporto psicologico, sarebbe stato interessante mettere in relazione i dati con la fase del trattamento psicologico (consulenza, inizio, trattamento, ecc…). Colpisce che i test falsati sono quelli che hanno la maggiore età e la minore distanza dall’evento. Da un esame sul caso emerge che le persone che hanno un’ansia nella norma hanno aspetti depressivi che il test non poteva misurare.

Di fronte alla presenza di un’alta percentuale di test falsati, si è potuto osservare come molte persone abbiano tentato di proteggersi da nuove situazioni percepite come minacciose mettendo probabilmente in atto dei meccanismi di difesa.  Si può ipotizzare un utilizzo di:

- negazione: attraverso cui si è cerca di sfuggire alla sofferenza negando la realtà spiacevole che ha provocato lo stato di disagio;

- rimozione: (rifiuto) allontanando o cancellando gli effetti spiacevoli e i ricordi dell’esperienza traumatica dalla sfera della coscienza;

- Idealizzazione: costruendo caratteristiche onnipotenti e non rispondenti alla realtà oggettiva, al fine di proteggere i bisogni narcisistici e anche dello spostamento in base al quale si verifica un trasferimento di sentimenti inaccettabili su un oggetto “sostitutivo” che rappresenta l’oggetto “reale”;

- Razionalizzazione: come tentativo di “giustificare” attraverso comportamenti, ragionamenti ed argomenti un fatto che il soggetto ha trovato angoscioso e quindi costruire attribuzioni, ipotesi o ragioni esplicative di “comodo” per poter contenere e gestire l’angoscia;

- intellettualizione: si verifica ogni volta che il soggetto durante il colloquio, non appena viene sfiorato un argomento per lui fonte di disemotività, filosofeggia, interpreta o giustifica intellettualmente ogni cosa trasformando in intellettualizzazioni le sue ansietà più profonde per la assoluta necessità di controllare ogni cosa, pena la conseguente estrema insicurezza e lo scompenso;

- Diniego: meccanismo di difesa che abolisce dalla coscienza, desideri, pensieri, sensazioni o situazioni traumatizzanti, dolorose spiacevoli;

- isolamento: consiste nell'intellettualizzazione anaffettiva esasperata di situazioni emozionali scabrose o penalizzanti per il soggetto a causa di un meccanismo iperdifensivo.

Un’altra ipotesi può essere che parte delle persone con test falsati fosse allenata ad eventi traumatici, tipo diverse malattie o lutti recenti, tanto da alterare la possibilità di percepire ‘di solito’ e ‘ora’ come il test richiede.

È possibile anche che alcune persone con tratti molto infantili si sentano anche protette o gratificate dallo stato regressivo che la malattia, seppur temporaneamente, porta con sé.

Diversamente da quanto ci si poteva attendere, pur trattandosi di sole 2 persone rispetto al campione, è stata riscontrata nei pazienti con problematica cronica un’ansia variata nel 50% dei casi e la presenza di test falsati nell’altro 50%, potendo contraddire l’ipotesi iniziale in base alla quale ci si aspettava che, dopo tanto tempo, i pazienti cronici avessero avuto la possibilità di adattarsi più facilmente e vivere più serenamente la malattia.

Se si pensava che le persone con patologia ortopedica potessero reagire meglio di qualunque altra tipologia di pazienti, come se “le persone potessero essere più preparate a rompersi un osso piuttosto che avere una malattia neurologica”, è possibile osservare che non è così, poiché anche tra i pazienti ortopedici è stata riscontrata una percentuale alta di ansia variata, potendo concludere che non è solo la natura dell’evento a influenzare la reazione alla malattia. Da questo deriva una utile indicazione operativa e risulta importantissimo prendere in considerazione l’opportunità di un trattamento psicologico anche per queste persone per le quali non ci si aspetterebbe alcuna reazione patologica.

Si è potuto constatare inoltre come, al di là del tipo di evento, giocano un ruolo decisivo nell’esito finale, anche le caratteristiche personologiche, che fanno sì che si reagisca in maniera differente allo stesso tipo di trauma in relazione alla struttura di personalità, alle caratteristiche delle malattie e dal tipo di prognosi, dalle caratteristiche dell’ambiente sociale, affettivo, sanitario con cui il paziente si relaziona.

Nelle istituzioni l’attenzione e’ allora focalizzata sull’ “organo da riparare” e si rischia di vedere solo il tessuto leso senza considerare a chi appartiene. Nell’interazione terapeutica prevale un atteggiamento tecnico, per cui lo sguardo clinico diventata uno sguardo che separa e seziona, che fissa la sua attenzione sull’analisi fisico-biologica dell’organo malato e non sul malato stesso.

Avviene inoltre che nella relazione medico-paziente si prenda frequentemente la direzione di un rapporto di tipo tecnicistico-riparativo e si conceda poca attenzione alla sofferenza nella sua globalita’.

Nel momento in cui il personale rivolge il suo interesse alla sofferenza del malato, e non solamente al dolore, il paziente viene invece considerato in tutta la sua unicita’  ed irripetibilita’: non avremo piu’ solo il bene fisico del paziente ma anche il bene del paziente in quanto persona, una persona dotata di capacita’  di compiere scelte, di provare sentimenti, di crearsi un progetto di vita.

Considerare la sofferenza significa dunque per gli operatori vedere il paziente come una persona che esprime la sua malattia attraverso una gamma infinita di sentimenti, valori, paure, atteggiamenti e cose non dette. E questo è un aspetto soggettivo che tocca gli aspetti psichici di ciascuno.

La malattia, non può essere ricondotta ad esclusiva causa fisica e la conoscenza di un contesto esistenziale in cui essa si svolge, diventa per l’equipe un supporto indispensabile alla stessa raccolta dei dati anamnestici, finalizzati alla comprensione del disturbo entro il quadro dell’individualita’  del paziente.

L’aspetto piu’ importante per una buona assistenza e’ quindi quella di comunicare, di parlare con chi soffre. Valutare le cause del dolore, identificare gli interventi adeguati, trattare correttamente e sondare l’effetto di un trattamento valgono sempre; ma quando si assiste un paziente con dolore si deve sempre ricordare che una buona comunicazione ed interazione sono fondamentali per un trattamento adeguato.

Nel personale sanitario, la ridotta attenzione al problema del dolore può essere determinata  da assuefazione al dolore altrui o ancora fungere da meccanismo protettivo per evitare che una continua esposizione ad elevati livelli di sofferenza spinga al burn out.

Nella considerazione che la relazione medico-paziente resta dunque il cardine terapeutico fondamentale, e che la priorità degli operatori è quella di porsi e di sentirsi abile ed efficace nel suo ruolo di “contenitore” dell’ansia del paziente, aiutandolo a scoprire progressivamente le proprie risorse interiori, guidandolo nel riconoscimento del proprio disagio attraverso anche il riconoscimento e la legittimazione di una ansia ‘normale’ cioè legata alla preoccupazione per la propria salute e per la dipendenza da altri per le cure necessarie.

La crisi esistenziale che causa una malattia nel paziente è espressione di un buon funzionamento quando porta a una maturazione. La crisi emozionale viene quindi a configurarsi inizialmente come una condivisione di blocco dell’esistenza, mancanza di energie necessarie per prendere qualche iniziativa che modifichi questo stato, esperienza di dolorosa impotenza e di vicolo cieco, sensazione di non poter intervenire, profonda perdita di sicurezza, sentimenti depressivi, disperazione e somatizzazioni.

Quest’anno anche l’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna (2010) ha conquistato una nuova definizione di «terapia del dolore» intendendolo come: l'insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore.

Nelle persone con malattia fisica il conoscere e comprendere la malattia e il sentirsi compresi possono influire sull’andamento della malattia stessa e sulla capacità di modulare la quotidianità in funzione di questo (sonno, alimentazione, a attività fisica)

Probabilmente attraverso un sostegno psicologico breve si può fornire ai pazienti un Io ausiliario che consenta di:

- contenere le emozioni e le ansie che scaturiscono dalla situazione malattia, per consentire il mantenimento dell’equilibrio psicologico,

- mobilitare meccanismi di difesa adeguati

- rafforzare gli aspetti comunicativi che favoriscono la compliance

La salute coinvolge la totalità somatopsichicosociale della persona e non è riconducibile a settori specifici del vivere, né può prescindere dalla soggettività dei diversi vissuti personali.

“il corpo vissuto è il nostro corpo, quello che non possiamo ignorare”.
Tomellini

Superare i problemi e difficoltà produce stress. Lo stress è un fenomeno normale della vita, permette di attivarsi per trovare un adattamento di fronte agli avvenimenti.

In definitiva ogni evento va inteso quindi in termini dinamici e come processo. Gli aspetti reattivi nelle persone possono essere adattivi o disadattivi. Esistono aspetti e tempi di ricostruzione e riorganizzazione del sistema colpito dall’evento e se riusciamo a  tenerlo presente, possiam accoglierlo nei pazienti e nelle famiglie fino a permettere il raggiungimento di un equilibrio soddisfacente in tempi brevi, favorendo al sensazione di padroneggiamento degli eventi anche come antidoto al senso di impotenza che l’essere malato ha come ombra pesante e a volte umiliante al di là della natura dell’evento.

* un ringraziamento particolare a Sara Alessandrini per la collaborazione nella ricerca e nella stesura conclusiva delle riflessioni

BIBLIOGRAFIA

- Spielberger C.D. (1989), S.T.A.I. State-Trait Anxiety Inventory. Forma y. Adattamento italiano a cura di Pedrabissi e Massimo Santinello. Organizazioni Speciali. Firenze.

- Zannoni M. (2007), Valutazione dell’ansia di stato e di tratto in due gruppi, maschile e femminile, di pazienti internistici. Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica.

- Di Giuseppe L. (2004), Ansia, Stress, Malattia: dal quotidiano al patologico. Francavilla al Mare.

- Sandler: il dolore psichico

- Le malattie autoimmuni, in “Le Scienze”, n. 303, novembre 1993

- http://www.disinformazione.it/stressecancro.htm

- http://www.maldamore.it/i_meccanismi_di_difesa.asp

- http://www.diesis.com/algonet/?p=260

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- http://www.isfo.it/files/File/Recensioni%203D/Salmaso06.pdf

- http://www.ordpsicologier.it/ml_preview.php?id_ml=142

- http://nicolozarotti.com/riassunto-tratto-dal-libro-gli-oggetti-interni-una-rivisitazione-di-sandler-sandler-e-dal-libro-manuale-di-psicologia-dinamica-di-alis-e-sstella/

-http://books.google.it/books?id=l5Vn_XCPQJwC&pg=RA7-PA351&lpg=RA7-PA351&dq=sandler+dolore+psichico&source=bl&ots=fPyVCCg4Tu&sig=XMn-R4H1-51ve9qXVlyMX9XRp90&hl=it&ei=_Pu6S8XmMYGFOLPJhZcO&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=2&ved=0CAkQ6AEwAQ#v=onepage&q=sandler%20dolore%20psichico&f=false

 

 


Cosa è la salute?

Il concetto di salute è stato formulato nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e corrisponde  ad " uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità". Questa definizione ci aiuta a guardare meglio anche alla connessione corpo-mente. Vi sarete accorti anche in condizioni normali il corpo e la mente vanno di pari passo. Quando invece, si ha mal di testa o non si sta bene, non ci si sente mai al pieno della forma anche mentale, così come quando si è tristi il corpo appare spesso stanco, e così via…

 

Tanti eventi possono contribuire a non farci sentire bene...

Tutti gli eventi inoltre,  possono essere potenzialmente traumatici, soprattutto quando non ce li aspettiamo o non ce li possiamo immaginare. Tra questi:

1. eventi accaduti direttamente alla persona, ad esempio: ricevere una diagnosi di malattie minacciose per la vita, gravi incidenti automobilistici, aggressione personale violenta, essere presi in ostaggio, incarcerazione, divorzio, stalking, incidenti, disastri naturali o provocati. Trovarsi di fronte ad eventi spiacevoli che ci fanno sentire impotenti, come avere necessità di una causa civile o penale.

2. eventi accaduti in qualità di testimoni, ad esempio: l'osservare il ferimento grave o la morte innaturale di un'altra persona dovuti ad assalto violento, incidente, il trovarsi di fronte inaspettatamente a un cadavere, ... Anche l’assistenza a familiari o amici che hanno subito un evento traumatico può portare a sensazioni ed emozioni che possono meritare attenzione

3. eventi di cui si è venuti a conoscenza. Quando siamo molto legati a qualcuno o accade qualcosa vicino a noi che ci spaventa molto, ci possiamo sentire come se stesse accadendo anche a noi

Altri eventi possono risultare particolarmente difficili da gestire, ad esempio:

- separazione e/o divorzio;

- gestione inaspettata della prole da soli;

- avere una improvvisa compromissione fisica che porta a condizionamenti nella propria vita (ad esempio: per gli sportivi il doversi astenere dallo sport per lunghi periodi per motivi di salute)

- vivere cronicamente in condizioni economiche precarie o disagevoli;

- subire un'ingiustizia;

- dover sostenere procedimenti legali

-  avere avuto un incidente stradale,

- ecc...

…E allora cosa fare?

È bene tenere presente che in situazioni critiche o pericolose o di stress protratto, le persone possono non comportarsi in modo normale.

Pertanto provare sentimenti e sensazioni intense, o impressioni che non riescono a dominare, è assolutamente fisiologico e naturale.

In situazioni straordinarie, le sensazioni di paura, ansia e panico sono reazioni normali dell’organismo. In questi momenti esistono sintomi che è bene riconoscere e che quindi descriveremo.

Questi sintomi possono presentarsi immediatamente o dopo qualche tempo, anche dopo mesi, in maniera blanda o meno intensa.

- ANSIETA’: una spiacevole sensazione di tensione e di timore

- DEPRESSIONE: una sensazione di stanchezza con relativa perdita di interesse nel mondo esterno, apatia, una visione prevalentemente negativa di sé e degli altri

- PAURA: di subire danni per sé e per le persone care, di essere lasciato solo, di dover lasciare i propri cari, di cedere allo stress, di subire un nuovo brutto avvenimento, di non farcela

- TRISTEZZA: a causa di ciò che è accaduto e di ciò che ha comportato per sé e per i propri familiari

- VERGOGNA: per essere sembrato indifeso, vulnerabile e bisognoso degli altri, per non essersi comportato come avrebbe desiderato

- RABBIA: per quello che è successo, verso l’ingiustizia e l’insensibilità degli avvenimenti, verso la vergogna e l’umiliazione, verso la sensazione di mancanza di comprensione degli altri, verso l’indifferenza

- RICORDI: di impressioni, di mancanza o di amore per persone care che stanno male

Si possono provare inoltre sensazioni fisiche come stanchezza, insonnia, incuria, fatica mentale (ad esempio: perdita di memoria e concentrazione), disorientamento, palpitazioni, tremori, difficoltà respiratorie, costrizione alla gola e al petto, nausea e diarrea, tensioni muscolari che possono provocare dolori (ad esempio: emicrania, dolori al collo e alla schiena, spasmi al ventre), irregolarità mestruali,  cambiamenti nella vita sessuale.

Possono instaurarsi nuovi legami familiari o di gruppo, ma nello stesso tempo possono verificarsi anche tensioni. Relazioni armoniose possono essere sostituite da conflitti. Possono insorgere iperattività, difficoltà di relazione, diminuzione dell’efficienza, momenti di rabbia e di litigiosità, abbandono delle attività favorite, incremento dell’uso del tabacco o altre droghe.

Ci si può ritrovare apatici o di fronte a pensieri e/o sogni invadenti che non ci permettono di andare oltre.

QUANDO E’ NECESSARIO RICORRERE AD UN AIUTO PROFESSIONALE?

- se da soli diventa difficile gestire sentimenti o sensazioni fisiche

- se si ritiene che le sensazioni tardino troppo a tornare normali, se si prova tensione cronica, confusione, senso di vuoto o spossatezza

- se continuano a manifestarsi sintomi fisici

- se dopo un mese ci si sente ancora apatici e privi di energie

- se si dorme male e si hanno incubi

- se non si ha nessuno con il quale condividere i propri sentimenti quando sarebbe necessario. Capita anche di sentirsi imprigionati nella fatica di trattenere le proprie emozioni anche per non sovraccaricare o preoccupare ulteriormente i propri familiari

- se le relazioni di coppia diventano tese e si hanno problemi sessuali

- se dopo l’evento si continua ad esagerare con fumo, alcool e altro

- se diminuisce l’efficienza sul lavoro

- se l’intensità delle emozioni che si provano è talmente alta da farsi sentire in balia degli eventi esterni

Intervenire in itinere permette di recuperare più in fretta lo stato di benessere e prevenire ulteriori peggioramenti fisici o relazionali.

Inoltre ad esempio, associare ad un procedimento penale, un sostegno psicologico consente di tenere conto di sentimenti e diritti.

 


La terapia occupazionale

Il luogo di Terapia Occupazionale è una stanza con una varietà di materiali e oggetti che invitano al “fare”, un luogo in cui la possibilità di scegliere è sempre presente:  un’opportunità che rappresenta il riconoscimento della soggettività del paziente.  Ogni scelta viene presa in considerazione dal terapista insieme al paziente, anche la  non-scelta.

Durante lo svolgimento delle attività avviene la trasformazione dei materiali: acqua e farina diventano una pizza profumata, un foglio di compensato una scatola per conservare gli oggetti più cari, terra e semi, una pianta....

Tale trasformazione nella stanza di terapia è accompagnata da un cambiamento interiore: un processo parallelo dove le emozioni e i pensieri vengono traghettate dal “fare”.

Queste attività seguono i presupposti teorici indicati da Piaget,  che ha sottolineato la priorità dell’azione nell’organizzazione del pensiero e che, attraverso la descrizione dello sviluppo evolutivo del bambino, ha dimostrato quanto pensiero e azione si stimolino a vicenda.

Nell'apprendimento infatti i gesti del bambino man mano che cresce, divengono sempre più finalizzati al raggiungimento di un obiettivo e il bambino registra queste esperienze di interazione, creando ricordi, memoria che favorirà gli apprendimenti. I processi cognitivi iniziano ad elaborare la progettazione e l’esecuzione dei movimenti

Attraversando l'azione puramente agita o imitata il bambino arriva all’azione pensata progettata ed interiorizzata, raggiunge la reversibilità del pensiero, riesce a generalizzare, conquista così nel tempo la funzione del pensiero astratto.

In quest’ ottica di stretta connessione tra azione e pensiero si pongono le attività, strumento privilegiato della terapia occupazionale.

Come mette in luce Robert White quando parla dell’aspetto motivazionale della competenza, il percorso terapeutico così creato può avere la funzione di creare inoltre un ponte reale tra esperienze passate e il futuro del paziente. Ho avuto modo di osservarlo durante la mia esperienza con le persone con disabilità acquisita.

E’ attraverso la  possibilità di creare oggetti, pensieri, storie e relazioni che si esplica la grande opportunità di cura  della T.O.: il contatto tra terapista e paziente  sul luogo del “fare” ha una grande valenza riabilitativa e  grazie ad esso due mondi, quello del terapista e quello del paziente, si incontrano e proprio da questo contatto prende avvio il percorso del trattamento, che è fatto di impegno per l’evoluzione.

Non è sempre facile proporla e farla accettare al paziente perchè è proprio l'espressione della fisicità che è cambiata  e genera sentimenti di sconforto e frustrazione sia per il riscontro di non essere più in grado di fare sia perchè necessitano delle nuove strategie per fare ciò che si faceva benissimo prima. Questi aspetti  risultano molto importanti anche per il paziente con disabilità acquisita  che può fare fatica ad accettare alcuni limiti di sé e ad andare oltre per scoprire anche le risorse che possiede. Freud indica che la paura è generalmente collegata ad un pericolo noto, mentre l'angoscia è il sentimento che riguarda l'ignoto ed indica qualcosa che concerne la persona più da vicino. Come dover gestire un corpo diverso che non si sa se e dove può arrivare. Spesso inoltre anche le famiglie proteggono da questa angoscia del fallimento e possono fare fatica a spronare ad esplorarsi e ad esplorare l'ambiente circostante.

Nella Terapia Occupazionale le attività sono sia i mezzi per il trattamento che i risultati dell’intervento, ma non sempre le mansioni usate come strumenti sono poi la conclusione del lavoro: per alcune persone  alcune attività sono fondamentali per condurlo a scoprire l’utilizzo di risorse, che gli saranno poi utili ed essenziali per altre occupazioni.

Il compito del terapista è cercare di capire le risorse e le difficoltà intorno alle occupazioni della vita, l’approccio è alla persona come 'persona in grado di fare delle cose': prima si accertano le risorse e gli interessi della persona, poi si affrontano i problemi specifici con l’intervento mirato.

Tutto questo è diverso da “ti dico io come si fa” che rappresenterebbe un puro esercizio di funzioni che non favorisce l'evoluzione e non promuove gli apprendimenti che possono portare all'autonomia.

“il fare, per essere terapeutico, deve essere “un fare essere”, come direbbe Fromm, deve entrare costruire una maggiore fiducia, un equilibrio, una relazione positiva con il mondo umano e non-umano che lo circonda, deve permettergli, con le sue attività motorie e ludiche, il passaggio da momenti “primitivi” a momenti più strutturati”.

Le attività quindi offrono molteplici potenzialità. Il “fare” va inserito in un processo che ha come obiettivo il favorire al massimo il coinvolgimento della persona. Il raggiungimento di questo obiettivo è veicolato dall’utilizzo della comunicazione nella sua accezione più ampia, anche del non-verbale.

Il linguaggio verbale è spesso carente nei pazienti è o difficoltoso o utilizzato più come difesa che come strumento di comunicazione.

Lavorare così “[…] favorisce la possibilità di comprendere anche ciò che non può essere espresso verbalmente, entrando in risonanza con l’altro, in una identificazione primaria e progettuale.”

Comunicare al di là della parola apre infinite possibilità di spazi creativi in cui terapista e paziente si incontrano per “fare” insieme e per promuovere la scoperta delle funzioni, un viaggio entusiasmante e sicuramente più coinvolgente, motivante e gratificante di un puro addestramento.

Le attività svolte in terapia non sono casuali, sono inserite nella storia intima delle persone, nelle sue caratteristiche, nel suo livello di sviluppo motorio, intellettivo e affettivo, inoltre per ogni persona l'attività ha un suo significato tutto personale.

“Perciò in terapia occupazionale non è importante esclusivamente il prodotto finale né, tantomeno, la sua perfetta rifinitura, ma è il processo di realizzazione dell’attività stessa che assume importanza fondamentale: come la persona adopera l’oggetto, se e come lo trasforma…Osservare, costruire ipotesi, criticarle, riformulare nuove ipotesi in una valutazione costante, rimanere nella complessità anziché accontentarsi della semplificazione poiché un processo terapeutico è molto di più che una ricetta cucinata più o meno bene”

La stanza di terapia occupazionale è piena di oggetti di tutti i tipi, oggetti che servono per costruirne altri, oggetti costruiti da ultimare altri rifiniti, alcuni solo abbozzati, ma tutti fanno parte del rapporto terapeutico, ogni oggetto anche se concreto non è solo oggettivo, risponde ad un criterio di unicità evoca una storia fatta di ricordi, emozioni, conquiste e delusioni.

In ogni attività, in ogni oggetto e in ogni prodotto c’è un significato e un senso di cui la persona può  o non può essere cosciente, ma che il terapista deve avere individuato e quindi tenere presente.

La realtà fisica e quella della mente confluiscono e si realizzano nell’oggetto, quindi possiamo dire che il prodotto di una attività è il simbolo di un cambiamento, di un processo esterno ed interno. Il prodotto non deve essere rifinito e ben riuscito ma deve essere il risultato di un processo evolutivo e la persona deve poterlo riconoscere come suo e avere da esso la conferma che le sue azioni lasciano un segno nella realtà, che hanno un effetto. Produrre un effetto, raggiungere l’obiettivo desiderato è fonte di grande soddisfazione. L’esperienza del sentirsi competenti dà una spinta propulsiva al desiderio di impegnarsi nel processo terapeutico. Rende concreta la motivazione e può aiutare a dare significato all'esistere.

Può quindi rientrare in un progetto di evoluzione che può accompagnare la persona al raggiungimento della massima autonomia possibile.

In ogni persona,  vi sono delle risorse da valorizzare e sviluppare che gli permettono di crescere e di affrontare il futuro. In un’ottica riabilitativa il disturbo, che è motivo dell’invio, diviene l’espressione del bisogno d’aiuto, ma è importante andare oltre la patologia per incontrare la persona nella sua interezza e porre il focus attentivo sulle sue capacità, sui suoi desideri. Nella terapia occupazionale vi è la possibilità di avvicinarsi concretamente, attraverso le attività, al patrimonio della persona e di costruire insieme un presente in cui essere protagonista delle sue scelte.

Il lavoro terapeutico spesso provoca timore nei familiari rispetto al futuro, le letture confuse delle situazioni passate hanno un grosso peso ed è importante tenerne conto nel percorso di cura intrapreso: la persona in terapia può sperimentare, attraverso la relazione con il terapista e la trasformazione dei materiali, che ha delle risorse e può elaborare una immagine diversa di sé stesso. Durante il lavoro di terapia occupazionale si può fare l’esperienza concreta che le difficoltà si possono prendere in esame, che le si può superare e crescere nonostante la loro presenza.

Lo sviluppo di nuove competenze è uno degli obiettivi della terapia occupazionale.

Competenza significa adeguatezza, abilità, capacità, è un termine utile a descrivere atti come il manipolare e il modificare ciò che ci sta intorno o alcuni nostri comportamenti: situazioni che implicano una interazione con l’ambiente.

Attraverso “le attività”, può migliorare il proprio approccio al mondo, scoprendo potenzialità non ancora emerse o migliorando quelle deficitarie.

Considerare la persona nella sua globalità  significa anche tenere presente gli aspetti dello sviluppo funzionale più o meno deficitari, sottesi ai vari quadri di patologia, tenendo così conto dei limiti oggettivi e anche delle realistiche prospettive di miglioramento e/o guarigione. Sottolineare ed agire sulle parti sane della persona per accompagnarlo verso un benessere individuale e sociale non preclude lo sguardo sugli aspetti malati che vanno compresi in senso clinico, inoltre il terapista occupazionale non deve essere solo un riabilitatore del sintomo, ma deve credere nell’importanza terapeutica delle attività della vita e nel loro valore propulsivo per il miglioramento della patologia.

L’osservazione deve essere un’attitudine costante del terapista, che accompagna, momento per momento, il percorso di cura, uno sguardo attento che è intrinseco alla terapia e che rende possibile il rispetto dei bisogni e delle scelte del paziente.

La capacità di osservazione insieme ad un approccio empatico sono estremamente utili anche nel lavoro con le persone con disabilità acquisita.

Nel percorso di cura il Terapista deve mantenere una giusta vicinanza emotiva e fisica, essere attento in modo costante, mettersi nella relazione senza essere invadente e minaccioso.

In una fase successiva quando il terapista è divenuto familiare e viene identificato come punto di riferimento sicuro si può pensare un approccio più diretto.

Un gesto nuovo che incide nella realtà, che produce un effetto, da solo non vi sarebbe arrivato.

Si può così sperimentare in un contesto protetto anche il fallimento per farlo evolvere altrimenti la paura che accada, rischierebbe di farlo diventare eterno.

La terapia occupazionale è un percorso a tre: paziente, terapista, attività, un percorso in cui attorno al “fare” ruotano comunicazioni profonde, il “setting” di terapia occupazionale è un luogo di proposte “dove l’esperienza del fare attiva molti canali percettivi e conduce da una realtà frammentata ad una realtà più integrata.” (Martelli, 2006)

Nella Terapia Occupazionale, la presenza di oggetti concreti, di materiali che, se assemblati, manipolati, si trasformano dando origine a oggetti prima pensati e poi realizzati, facilita le complesse dinamiche intrapsichiche e relazionali. I risultati delle attività rappresentano quel che avviene nella terapia e occupano quell’area intermedia che c’è fra mondo interno e mondo esterno.

Per le persone bloccate da una difficoltà la terapia è una occasione di accantonare, anche se per poco, le loro consuete modalità ripetitive, stereotipate e primitive: protetti dal setting terapeutico con cautela quando se la sentono possono osare, possono scoprire la possibilità di funzionare a livelli più evoluti e trarne piacere.

È plausibile ritenere che per quei pazienti la cui vita è stata interrotta a causa di una patologia, la terapia occupazionale è un luogo terapeutico adeguato alla promozione dello sviluppo evolutivo  di modalità di transito per ricostruire una normalità, seppur a volte diversa da prima.

La terapia occupazionale rappresenta un valido strumento per accompagnarli in un ambiente protetto, lontano dalle pressioni delle aspettative e delle prestazioni, verso un fare competente, che dà soddisfazione, che fa sentire efficienti ma che nello stesso tempo è passato attraverso la creazione e la sperimentazione di parti dolorose e preoccupanti, che comprensibilmente sono difficili da avvicinare, toccare e manipolare emotivamente e fisicamente.

 

Personalmente in un momento di grande strappo tra due fasi di vita un hobby è stato la mia Terapia occupazionale.

Attraverso la manipolazione, l'assemblaggio, le prove di tenuta dell'oggetto, la contentezza del risultato, la piacevolezza e l'approvazione ricevuta degli altri, ho ritrovato energia per evolvere aiutandomi a riconoscere che quel vuoto non era incapacità, ma potere e spazio generativo, potendo riacquistare una stima di me e un sentimento di ben-essere maggiore.

Un ringraziamento particolare a Nicoletta Mazzoni e a Sara D'Altri per l'appoggio e i suggerimenti .

 

Bibliografia

    • “La stanza di Terapia Occupazionale: scelta e motivazione all’interno del percorso riabilitativo” Tesi di Maria Civita Di Russo;  2008
    • American Psychiatric Association: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), 1996, Masson
    • Baumgartner Emma: Il gioco dei bambini, 2002 Carocci
    • Cunningham Piergrossi Julie (a cura di): Essere nel Fare, 2006 Franco Angeli
    • Mastrangelo Glauco: La Terapia Occupazionale nell’età evolutiva, 1999 Edizioni Scientifiche Cuzzolin
    • Raccolta di articoli pubblicati nella rivista “Il Ruolo Terapeutico” a cura del “Vivaio”, Centro di psicologia dell’età evolutiva, dal 1978 al 1999
    • Piaget Jean: Lo sviluppo mentale del bambino, 1967 e 2000 Einaudi
    • Quaderni di Salute Marche: Progetto autismo, gennaio 2005
    • Rohde Katia: La ragazza porcospino, 2001 Casa Editrice Corbaccio
    • Surian Luca: L’autismo, 2005 Il Mulino
    • Tustin Frances: Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti,1991 Raffaello Cortina Editore
    • White R.: Un riesame della motivazione: il concetto di competenza, 1989, Martello-Giunti
    • Winnicot D.W. , Gioco e realtà, 1974 Armando Editore
    • Zanobini Mirella, Usai Maria Carmen: Psicologia della disabilità e della riabilitazione. I soggetti, le relazioni, i contesti in prospettiva evolutiva, Franco Angeli



OSSERVAZIONI INTORNO AL CONCETTO DI DOLORE PSICHICO


Il dolore è un concetto è un argomento concettualmente difficile e arduo da descrivere: il solo aspetto chiaro è che “Il dolore è sempre un’esperienza soggettiva. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita” (IASP, 1979). Pertanto è importante sottolineare che l’esperienza del dolore è determinata ed influenzata dalla dimensione affettiva e cognitiva, da fattori individuali, dalle esperienze passate, dalla personalità, dalla struttura psichica, dal significato della situazione specifica e da fattori socio-culturali (Mannion et Woolf, 2000).

Nasce come esperienza prettamente fisica collegata ad esperienze di dispiacere, ma nell’evoluzione e nella crescita personale, assume connotati e significati specifici per ciascuno di noi.

Il nostro lavoro parte dalla componente neurofisiologica, per giungere alle manifestazioni del dolore psichico e a come può essere affrontato ed elaborato in un percorso terapeutico.

L’ultima parte del nostro elaborato mira a riconoscere i contenuti teorici nella quotidianità e nella pratica clinica.

Tesi di Specializzazione di: DEBORA BATTANI e ALESSIA RENZI; Novembre 2012 pubblicata in esteso: www.palogianangelo.it






OBESITA': UNA MALATTIA CRONICA CHE SI PUO' COMBATTERE CON SINERGIE MEDICHE. A FORLI' L’ESEMPIO DELLA TERAPIA OCCUPAZIONALE TRAMITE LABORATORI ESPRESSIVI.

 
Grazie al successo del laboratorio di terapia occupazionale tenutosi durante l’edizione 2012 della Settimana del Buon Vivere, l'Ospedale Privato Villa Igea di Forlì può ora vantare un’attività in più per il suo Centro Obesità e Nutrizione Clinica. Abbiamo parlato con la psicologa Debora Battani il cui compito all'interno dell'equipe del Centro, è aiutare i pazienti a ‘riscoprire le proprie risorse e a riscoprirsi “capaci’ attraverso un percorso che, sondando il terreno emozionale della persona, va oltre la visibile perdita di peso.

In occasione del Buon Vivere 2012 è stato realizzato un cartellone di 240x70 cm dal titolo ‘Il Buon Vivere è’ in cui i pazienti hanno comunicato il loro pensiero attraverso varie forme d’espressione, dal dipinto con colori a dita alla poesia.

Quest’anno, sempre con un laboratorio durante la Settimana del Buon Vivere, la psicologa Debora Battani coglie l’occasione per riflettere sui cambiamenti avvenuti nella consapevolezza personale e sociale del paziente tra l’inizio e la fine della terapia. Le persone, solitamente affetti da obesità grave, termine con cui ci si riferisce a persone con un indice di massa corporea maggiore di 40 kg/m2, saranno protagonisti di un percorso di grande importanza. Si tratta di una riflessione attraverso il fare per cui i pazienti riacquistano la consapevolezza di essere persone non solo con un corpo, ma anche con sentimenti, ragioni e pulsioni emotive non di secondo piano.

A Villa Igea, questi workshop terapeutici sono all’ordine del giorno: Battani mi mostra alcuni manufatti realizzati dai pazienti, sono oggetti di vario tipo, da piccole sculture in argilla a libri in miniatura. Con felicità, la psicologa condivide con me l’esperienza di un paziente che all’inizio della terapia ammise di non sapere chi fosse e poi, verso la conclusione del suo percorso riabilitativo, disegnò un libro con tanto di segnalibro, che indicava lo stadio di comprensione a cui la persona era giunta. Sapeva fino a quel punto, il resto era ancora da scoprire.

Battani specifica che i laboratori espressivi si diversificano da ciò che si è soliti chiamare arte-terapia per il ruolo dello psicologo: mentre l’arte-terapia non prevede alcun input dato dal coordinatore dei lavori, la terapia occupazionale si caratterizza invece per l’intervento iniziale dello psicologo che propone del materiale specifico o dei temi, su cui poi lavorare.

Come suggerisce il nome, la terapia occupazionale mira alla realizzazione personale del paziente attraverso una qualche occupazione; i cosiddetti laboratori di manualità aiutano la persona affetta da obesità a rientrare in possesso della capacità di rappresentazione. Spesso, infatti, il corpo così ingombrante fa dimenticare all’individuo la propria parte più intima, emozioni e sentimenti inclusi. Non è un caso che spesso il corpo sia rappresentato dai pazienti come un enorme contenitore di dolore; la terapia occupazionale, attraverso il fare, vuole comunicare un messaggio di speranza, aiutando la persona malata a riacquisire una propria consapevolezza personale, e per utilizzare le parole della Dott.ssa Battani ‘a gestire, riconoscere e capire il proprio sé’.

Molti pazienti all’inizio del laboratorio si rappresentano come una massa d’argilla informe, poi con il passare del tempo e degli incontri, le loro composizioni creative iniziano ad avere una forma, seppur soggettiva.

Finalmente l’obesità è stata riconosciuta come malattia cronica; in questo modo si va a sfatare il mito di un disturbo legato esclusivamente alla mancanza di volontà della persona.

La malattia colpisce ogni fascia d’età, un ampio spettro d’indagine ben rappresentato dai pazienti ricoverati a Villa Igea che vanno dai diciotto ai settant’anni, ma non ne sono risparmiati neppure i bambini (che a Villa Igea seguono un percorso ambulatoriale).

All’interno del contesto pluridisciplinare di questo Ospedale Privato, Debora Battani, membro del servizio psicologia, mira a restituire il senso del sé a persone che, spinte a nascondersi da una vergogna sociale, finiscono per autocensurarsi.

A Villa Igea i letti di degenza occupati da queste persone sono mediamente una ventina; all’anno si contano invece intorno alle mille presenze che giungono al Centro Obesità e Nutrizione Clinica di Forlì da tutta Italia, dal momento che questo Ospedale Privato è un riferimento nazionale anche per gli operatori di questo settore.

Qui si lavora esclusivamente in equipe; il gruppo è composto da varie figure professionali interagenti tra loro che tutto vogliono essere tranne che rigide e statiche categorizzazioni di ruolo; solo per citarne alcune, l’internista, l’endocrinologo, lo psichiatra, il cardiologo, il dermatologo, il fisiatra, il dietista e lo psicologo lavorano non solo tra loro, ma anche con altre figure appartenenti ad altri reparti. Tali laboratori si realizzano ed integrano con tutte le attività riabilitative, individuali e/o di gruppo, che quotidianamente i pazienti svolgono con l'equipe.

La Dott.ssa Valeria Zaccheroni, responsabile clinico del Centro Obesità e Nutrizione Clinica di Villa Igea, fa notare che necessariamente il centro obesità si deve interfacciare con altri dipartimenti senza perdere di vista la globalita’ della persona obesa e delle sue necessità: si pensi per esempio alle potenziali difficoltà nel poter garantire una banale visita ginecologica accurata a una donna obesa. Esistono, infatti, ancora diverse mancanze nei servizi ospedalieri per cui molti strumenti non hanno la capacità di portata necessaria ai bisogni di questa tipologia di persone. Il centro di Villa Igea lavora per sopperire a questa inadeguatezza: ‘Cerchiamo di costruire qualcosa a misura in attesa che cambino le misure’, spiega la psicologa Battani.

Al centro Obesità e Nutrizione Clinica l’attenzione è focalizzata non solo a far perdere peso ai pazienti, ma anche a migliorare la loro qualità di vita.

Come ricorda Battani, l’obiettivo è offrire alla persona malata nuovi strumenti di comprensione personale, rivalutando non solo l’identità della persona, ma anche il suo posto nel mondo.

In attesa della Settimana del Buon Vivere, per ulteriori informazioni sul lavoro del reparto, si può consultare il sito dell'Ospedale Privato Villa Igea: curaobesitaforli.it

 

Testo di Elena Dolcini




PNEI: PAURA E IMMUNITA’, QUANDO LA GUARIGIONE E’ POSSIBILE?

Un’esperienza di supporto psicologico in ambito riabilitativo

 
Il mio lavoro presso l’unità operativa di Medicina Riabilitativa include la degenza di Forlimpopoli e il servizio di Forlì.

In entrambi mi occupo, anche se con diverse modalità di presa in carico del paziente, del supporto alle persone che manifestano disagi, conseguenti ai motivi che li hanno portati all’UOMR su segnalazione/confronto con il personale di riferimento. Parallelamente, per gli stessi casi, supporto l’intera equipe, partecipando all’elaborazione del progetto riabilitativo e dei programmi terapeutici.

Il mio supporto viene richiesto in base ai segni di disagio conseguenti della malattia/trauma, che il paziente mostra al fisiatra o al fisioterapista. Da questo confronto, nasce una riflessione condivisa, di individuazione del bisogno, cercando di scindere cosa appartiene al paziente e ciò che può nascere da dinamiche relazionali fra gli operatori.

Considerato che il servizio è prevalentemente a favore di persone che sono già a domicilio e che distano temporalmente dall’evento traumatico mediamente 1 anno, i vissuti psicologici che potessero presentare, risultano più strutturati (sul versante adattivo anche se patologico e/o disfunzionale) e richiedono un maggior tempo di elaborazione e di conseguente presa in carico. Rispetto alla degenza, risulta essere inoltre, minore il numero di pazienti che riconosce di avere bisogno di essere accompagnato nel percorso di adattamento alla malattia/evento.

Durante il ricovero, nella maggioranza dei casi, le persone sono favorevoli ad assecondare il bisogno comunicativo carico della preoccupazione per la propria vita nel caso del paziente o per il proprio caro in caso di familiari.

Quando le incontro il colloquio è solitamente individuale e partendo dalle condizioni fisiche giunge ai nuclei sofferenti e all’espressione delle paure legate alla propria immagine corporea e nel tempo, ai vissuti sofferenti a questa correlate. Emerge frequentemente un vissuto di castrazione e di impotenza legata alla malattia/evento. Spesso queste persone necessitano di un aiuto per affrontare la dolorosa elaborazione della perdita temporale o definitiva di una funzionalità corporea. Come nel corpo, anche nella mente la prima reazione è il blocco.

Per il paziente la ristrutturazione del proprio campo di vita segna il superamento della fase del lutto e l’adattamento alla situazione esistente, inoltre è caratterizzata da un atteggiamento altalenante, fatto di progressivi avvicinamenti e allontanamenti. In questa fase il paziente e la famiglia, avendo la consapevolezza di quanto accaduto, raggiungono la capacità di attribuirgli un senso e la capacità di riprogettare e ripensare la propria vita tenendo conto dei cambiamenti avvenuti.

Tale capacità si basa anche su gli aspetti pretraumatici soggettivi, quindi ogni intervento progettato deve tenere presente e basarsi su indicatori della qualità di vita percepita della persona che abbiamo di fronte per essere vissuto il più possibile “a propria misura.”

Nei confronti dell’equipe, invece, fondamentale risulta gestire e condividere la preoccupazione per il paziente. Sapere che un proprio paziente è “un po’ anche nei pensieri di qualcun altro” fa sentire ogni componente ‘spalleggiato’ e consente di esporsi meno verso fenomeni di sovraccarico. Motiva un'idea di condivisione e può quindi anche prevenire fenomeni di burn-out. L'equipe consente anche di riconoscere la funzione di sostegno psicologico come parte attiva del proprio lavoro. La necessità di difendersi dalla sofferenza interna non può tradursi, nel distacco emotivo e nella “tendenza a trattare il corpo” al posto del “trattare una persona”. Tale approccio, favorirebbe nel paziente il sentirsi frammentato e non preso in carico nella sua complessità, attribuendo al corpo un'azione di cura non integrata, “fratturata” all'aspetto emozionale. Essere professionisti che manipolano il corpo non comporta quindi soltanto il possedere una tecnica. In questo contesto essere un operatore che riabilita, significa avvicinarsi a situazioni in cui, l’esito di un lungo lavoro, non sarà mai restituire al paziente la sua precedente efficienza, ma accompagnarlo verso un migliore adattamento e verso una qualità di vita accettabile per sé e per i suoi familiari. Per gli operatori, conoscere e riconoscere le possibili reazioni emotive che un paziente e/o la sua famiglia, possono sviluppare a seguito di eventi traumatici, inoltre, consente di identificare margini di collaborazione diversi anche nell’alleanza terapeutica.

In tale prospettiva che va verso una presa in carico multipla, si interviene riconoscendo che tutte le parti di quella persona sono cambiate e meritano attenzione e che tutti gli operatori sono insieme ed, affrontano, seppur da punti di vista diversi, l’esperienza con lo stesso paziente per lo stesso scopo riabilitativo. Come riconosce la PNEI, la ricchezza si crea nell'integrazione di saperi diversi, che consentono di restituire al paziente una visione globale e di complessità di se stesso.

Quello che serve al paziente è un giudizio clinico prognostico attendibile, condiviso ed espresso nell’equipe. Questo può facilitare il processo di acquisizione della realtà e sostenere la persona e/o la famiglia nella sopportazione dello stress emozionale.



RAPPORTI MENTE E CORPO: i percorsi delle rotture

L’esperienza quotidiana ci ha permesso di riconoscere che intervenire in “itinere”, come avviene presso la degenza, consente di prevenire stili disfunzionali di adattamento all’evento e, favorendo l’espressione del disagio, vengono stimolate adeguate modalità personali e familiari di fronteggiamento all’evento stesso, in un’ottica di qualità di vita percepita. Il passaggio dalle emozioni alla malattia, dallo psichico al somatico, è un funzionamento integrato e complesso dei grandi sistemi di regolazione complessiva dell’organismo, come valorizzato dalla PNEI.

Come se l’accoglienza possa stimolare le difese immunitarie, favorire il processo di guarigione, catalizzarlo e fungere da “cuscinetto al trauma” e intervenire per normalizzare le risposte inibitorie create biologicamente nell'organismo dallo stress subito. Studi hanno dimostrato che situazioni di stress (fisico, psicofisico, emozionale) possono allo stesso modo influenzare il sistema endocrino. Tali reazioni dipendono dalla durata e dalla quantità di ormoni immessi nella circolazione. Durante la fase acuta, l'aumento dell'attivazione biologica funge da stimolatore del sistema immunitario con funzioni protettiva, mentre in condizioni di stress cronico alti livelli sopprimono la risposta immunitaria con meccanismi simili a quelli che si realizzano negli stadi infiammatori. Biologicamente la paura inoltre, nello specifico di ciò che è stato e di ciò che potrebbe essere, agiscono attivando l'amigdala che coinvolge altre aree di risposta allo stress: la sostanza grigia centrale che produce una reazione di “congelamento”, l'ipotalamo laterale che attiva il sistema circolatorio innalzando anche la pressione arteriosa e una riposta sugli assi deputati alla produzione di ormoni.

A livello celebrale è stato dimostrato che vi è inoltre una fissazione dei ricordi legati al trauma come tentativi biologici di controllo della paura. Quindi accogliere le ansie, le preoccupazioni e le paure nei tempi in cui si sviluppano, può consentire di prevenire lo sviluppo di meccanismi patogeni e lo strutturarsi di maggiori difficoltà per la persona nel percorso di guarigione. Permette, inoltre, l’avvio di migliori relazioni sia con la famiglia che con gli operatori.

Nel trauma, l'esperienza dell'emozione è troppo forte da sopportare, di tale entità da riuscire a fugare persino la capacità di poter essere elaborata e l'esperienza totale viene quindi smembrata. Gli eventi e i loro significati perdono connessione. L’episodio traumatico può essere vissuto, infatti, come “annientamento” (A. Freud), come “rottura dell’equilibrio dell’Io” (Greenacre, Walder), quale evento di disarticolazione delle relazioni interattive preesistenti nell’Io. La situazione traumatica rappresenta una minaccia per l'integrità dell'Io e l'esperienza di "essere se stessi" inizia a frammentarsi, contribuendo ad alterare la capacità dell'organismo di mantenere un equilibrio interno stabile, grazie ad un insieme di processi di regolazione che agiscono ogniqualvolta si verifica una variazione delle condizioni esterne.

Quando questo avviene la persona si trova nella condizione di un distacco totale, diretta conseguenza di una disarticolazione e disintegrazione somato–affettiva. Questo processo coinvolge totalmente l’attività psichica e altera i meccanismi biologici, rendendoli inadeguati rispetto a qualsiasi tentativo di reazione.

Nei casi gravi quando la persona è vittima di un trauma il risultato è: un mondo interiore in cui le emozioni non sono verbalizzate e rimangono sconnesse dal significato personale. Non considerare i propri vissuti emotivi non rende possibile l'instaurarsi di un legame significativo con l'Altro, nè con il proprio corpo, perdendo la possibilità anche biologica di interrompere i meccanismi che alimentano lo stress.

Il rischio che si corre è quello di considerare il proprio corpo “rotto” e bisognoso di cure e la mente diventa quindi osservatrice disattenta delle proprie emozioni delegando a un corpo già sofferente la possibilità di esprimere altro dolore. Forse più facile dire “mi fa male solo lì”. È possibile guarire curando solo pezzi? A volte il riconoscere il corpo in quanto canale espressivo, ci aiuta a portare in luce stati di non equilibrio profondi sottostanti.

La mente umana si difende dal trauma tramite la dissociazione che Putnam, ha chiamato "la fuga quando non c'è via di fuga ". Questo meccanismo nel negare l'accesso alla consapevolezza preserva la sopravvivenza, allontanandoci dalla realtà quando diventa particolarmente insostenibile e dolorosa, si traduce in un black out della memoria. Diviene patologica nella misura in cui essa non permette di riflettere sui differenti stati della mente entro una singola esperienza di "identità", mantenendo lo stato di non integrazione.

Nei pazienti, spesso associato alle preoccupazioni attuali e alla drammaticità di questo presente, affiorano spesso anche ricordi di traumi precedenti a volte recenti, a volte antichi. Così l’esperienza traumatica rischia anche di autoalimentarsi. Possono crearsi quindi ulteriori condizioni di stress, che possono anche favorire risposte depressive che creano un'inibizione del sistema immunitario ulteriore. Una recente ricerca di Esther Sternberg riguarda le caratteristiche reazioni come sonnolenza, isolamento, scarso appetito che avvengono quando ci si ammala. “questo tipo di malessere non dipende dalla malattia in sé, ma dall'attività delle citochine del sistema immunitario che interferiscono con l'attività celebrale [...] queste sostanze influenzano anche la memoria e le capacità cognitive: ecco perchè perdiamo di lucidità quando siamo malati.”

È possibile osservare in alcuni pazienti con storie difficili e portatori di una sofferenza profonda quanto l'esperienza traumatica sembra accumularsi, (Khan); questo rende la persona, particolarmente vulnerabile e indifesa nei confronti di ogni esperienza potenzialmente traumatica e più vulnerabile e ricettiva anche rispetto agli agenti esterni ed atmosferici. Tali elementi vengono verbalizzati dai pazienti stessi come “punizioni divine”, “colpe sconosciute che si devono scontare” mettendo la persona in una condizione di assoluta passività e ulteriore disequilibrio rispetto alla malattia.

Tali vissuti nelle persone, se non ascoltati, riconosciuti ed elaborati restano bloccati inibendo risposte; non portano il paziente a sviluppare il desiderio di guarire ma ad alimentare circuiti mentali depressi e demotivanti verso il ri-conoscere anche il significato della riabilitazione su sé e l’importanza di questa, anche quando fa male, è dura o si è stanchi. Rielaborare consente di avviare processi di armonizzazione corpo-mente e può rappresentare per la persona anche l’inizio di una liberazione, addirittura un’opportunità di conoscenza e di scoperta di sé che coinvolge e integra tutte le sue dimensioni. Alcuni pazienti arrivano a verbalizzare “mi serviva questa malattia” “dovevo vivere tutto questo per arrivare qui”.

Nella realtà ad un linguaggio emotivo ne corrisponde uno corporeo. Pensiamo all’emozione della paura e della rabbia, quanti sintomi fisici ci vengono in mente: dalla tachicardia alla mancanza del respiro, l'innalzamento della pressione e l'aumento della sudorazione, … così ogni dolore fisico, ogni corpo che perde funzionalità, ogni sospetto di non guarigione, paura del futuro e la domanda “chi sono io oggi”, si rendono così visibili durante i processi di recupero. La mente può infatti, influenzare il corpo e svolgere un ruolo determinante nella salute e nella cura della malattia, intervenendo nello svelare e costruire significati che uniscono parti, come la mia esperienza clinica sembra mettere in luce.

In ciascuno di noi sono attive tre macroaree in interazione continua (fisica, sociale e psichica). Nel caso di un trauma/malattia, ognuna di queste tre aree viene fortemente esposta a pericolo di destrutturazione; in assenza di integrazione si può giungere a mettere a repentaglio la stessa possibilità di vita. È proprio quando il vissuto conseguente al trauma è accompagnato dalla sensazione di “dolore senza parole” che coinvolge tutto. Nell’esperienza della patologia improvvisa (ad es: ictus, esiti di incidenti stradali, ecc…), si fa riferimento ad una perdita e l’elaborazione del lutto è quindi ancora più difficoltosa essendo possibile un confronto tra le condizioni precedenti il trauma e quelle successive e spesso la guarigione è la conquista di una immagine di sé in equilibrio con la nuova realtà psicofisica e ambientale.

La via che porta alla evoluzione del paziente avviene attraverso il vivere esperienze di nuove realtà, attraverso lo sperimentare di poter essere accettati, accolti anche “così”. Capita frequentemente che la prima reazione nel paziente sia il desiderio di non voler essere visti così, di vergognarsi. Il riuscire a mostrarsi e il riuscire a vivere la realtà del “ho avuto una malattia” è una conquista che richiede tempo. Il processo terapeutico deve consentire il raggiungimento di un equilibrio tra stabilità e crescita delle rappresentazioni del Sé cioè il bisogno di sentirsi se stessi e nello stesso tempo il bisogno di costruire nuovi significati per una piena partecipazione ad una vita più autentica e creativa.

Inoltre, emerge frequentemente, nella storia di questi pazienti, la presenza di eventi stressanti che possono avere anche favorito l’insorgere della recente malattia. Per la relazione tra eventi stressanti e vulnerabilità è probabile che nel corpo di quella persona fosse già pertanto presente una 'depressione' o uno squilibrio energetico-immunologico.

L'approccio PNEI consente anche allo psicologo di guardare al disagio come disequilibrio che coinvolge mente, corpo, ambiente e che necessita pertanto di essere affrontato tramite sinergie di saperi e con metodiche integrative (ad es: fitoterapia, omeopatia, ...)

 

Bibliografia

Basaglia N. E Al.: “Progettare La Riabilitazione” Ed. Ermes, Milano, 2002

Bottaccioli F.: “Psiconeuroimmunologia” Ed. Red, Milano 2005

Cicerone P.E.: “Quando el emozioni possono produrre malattia” Rivista PNEI; anno II numero 5 (pg. 7)

Dethlefsen T.: “Malattia e destino”. Ed. Mediterranee, 2006

Giannantonio M.; Psicotraumatologia E Psicologia Dell’emergenza” 2ed. Ecomind

Solano L.: “Tra mente e corpo” Raffaello Cortina Ed.; 2001

http://www.psicologiaemergenza.it/

http://www.psicotraumatologia.com/

http://www.sipem.org/

http://www.psicolinea.it/g_t/Trauma.htm

http://www.traumacranico.net/

 


A TUTTO TONDO

Nei mesi di aprile e maggio 2014 presso la Biblioteca del Centro Obesità e Nutrizione Clinica (CONC) di Villa Igea, Ospedale Privato in Forlì, si sono tenuti incontri di sensibilizzazione fra studenti delle seconde classi (grafici e 2 classi settore socio-sanitari) dell’Istituto di Istruzione Superiore Roberto Ruffilli ed una rappresentanza degli operatori dell’equipe CONC.
Sono stati eseguiti 6 incontri (2 per ogni singola classe) della durata di circa 2 ore ciascuno aventi l’obiettivo di stimolare alla cura del sé e di sviluppare un’attenzione “partecipata” e consapevole al corpo, al sé e all’alimentazione.
In presenza del medico endocrinologo dr.ssa Valeria Zaccheroni, dello psicologo dott.ssa Debora Battani, della dietista dott.ssa Elena Zorzetto, del medico fisiatra dr.ssa Lisa Zambelli e dell’insegnante Maria Luisa Ravaioli, sono stati invitati i ragazzi ad eseguire un disegno partendo dallo stimolo “se ti dico piatto cosa ti viene in mente”. Tale stimolo permette di fare emergere in maniera spontanea e non ragionata i significati (medico, nutrizionale, emotivo, psicologico e comportamentale) dello stesso per gli studenti.
Il riesame e le considerazioni sugli elementi emersi nel “disegna piatto” e dei suoi significati, raccolti tramite la tecnica del brainstorming, venivano rivalutati a distanza di circa 2 settimane.
Dai disegni degli studenti del settore grafici sono emersi: i ricordi, la casa, le abitudini, quello che mi piace, l’uso del cibo come fonte di gratificazione, le idee culturali sulla dieta, il cibo come compensazione, il piatto legato ai segnali fisici di fame e sazietà, il cibo come elemento creativo, il piatto legato a desideri sull’immagine corporea, il piatto legato alla salute, il piatto legato all’impulsività ed ai desideri del momento. Per questi studenti è emerso un atteggiamento marcato di volere interpretare ciò che vuole l’altro per accontentarlo, una ricerca della perfezione nell’immagine ed un’attenzione al bello come, peraltro, il percorso di studi stimola.
Dai disegni degli studenti della prima classe del settore socio-sanitario sono emersi: il piatto come tavola, i ricordi, i desideri, il piatto collegato alle emozioni, collegato alle abitudini, alle tradizioni, una cura di se stessi, il piatto legato alla compagnia ed alla famiglia, il cibo legato ai riti (festa) o alle necessità (pratico), ai segnali corporei, a come vorremmo essere. Questa classe, in particolare, è riuscita ad esprimere maggiormente la parte emotiva anche con disegni più liberi e meno tendenti “per forza” al bello, probabilmente come riflesso del percorso di studi volto alla cura del prossimo.

Dai disegni degli studenti della seconda classe del settore socio-sanitario emergono: il piatto come tavola, il piatto legato alla salute e al benessere, il piatto legato alle passioni che  nutrono, il piatto collegato agli stimoli fisici, visivi (colori ed effetto sul corpo), al piacere, ai rituali (festa), alla cura di sé, ai ricordi ed alla famiglia, al senso di inadeguatezza, il piatto collegato alle bevande, alla pubblicità, alla difficoltà di attivarsi. I disegni di questa classe sono stati prevalentemente piatti vuoti, probabilmente condizionati dallo stimolo fisico della fame (l’incontro è avvenuto all’orario di pranzo). Gli elaborati hanno acquisito maggior senso durante il confronto verbale.

Ci sembra che per età l’aspetto sulla preoccupazione del giudizio altrui fosse molto spiccato, tanto da portare la rappresentazione del piatto come oggetto senza significato. Nello sviluppo di ciascuno, ed in particolare in adolescenza, il sentirsi “uguali” è temporaneamente la fonte di sicurezza per individuarsi. Logisticamente la stanza ha richiesto una vicinanza di lavoro in piccoli gruppi e tendenzialmente ogni tavolo aveva un “tema” simile sugli operati dimostrando tale aspetto di funzionamento.
Al termine delle attività è stato chiesto ai ragazzi cosa pensavano emergesse dallo stesso laboratorio svolto dai pazienti ricoverati presso il CONC per obesità grave: i ragazzi stessi erano portati a pensare che i pazienti potessero identificare nel piatto gli stessi significati, riconoscendo come  differenza la quantità e la probabile modalità degli atteggiamenti.
Un ambito di riflessione è stato anche sull’attività motoria in relazione all’alimentazione, all’immagine corporea ed all’attivazione per la cura di sé e della propria salute. Sia per l’alimentazione che per l’esercizio fisico emergevano atteggiamenti dicotomici “tutto o nulla”, in relazione al pregiudizio sociale che definisce dieta un atteggiamento unicamente restrittivo e volto al dimagrimento (anziché come stile comportamentale equilibrato e costante) e attività fisica, un impegno finalizzato al raggiungimento di risultati sull’immagine corporea e non sul guadagno di salute o il piacere psicofisico, come frequentemente riscontriamo anche nei nostri pazienti.
Nella conversazione con i ragazzi spiccava la mancata abitudine alla regolarità ed al ritmo dei pasti, intesi più come la risposta (spesso non adeguata in termini qualitativi e quantitativi) all’emergenza dello stimolo biologico (fame) o emotivo (noia, rabbia, etc…). Tale aspetto così precocemente presente favorisce un atteggiamento impulsivo e poco controllabile di fronte al cibo.

Una caratteristica comune ai disegni degli studenti a confronto con i disegni delle persone ricoverate è che i primi riempiono meno il foglio rispetto ai secondi. E’ verosimile ipotizzare che per i ragazzi il cibo sia uno degli aspetti della vita mentre spesso per le persone affette da obesità rappresenti una ‘coperta’ a tutti i bisogni e una fonte esclusiva (di gratificazione, sfogo, spontaneità, ecc..) e i disegni frequentemente occupano tutto il foglio.

Tutti questi elementi fanno riflettere sul crescente problema dell’obesità e dei disturbi del comportamento alimentare proponendo lo sviluppo di una attenzione precoce realizzabile tramite azioni di prevenzione e non solo di cura. Ci sembra quindi indispensabile un programma di formazione/prevenzione volto all’acquisizione di una maggior consapevolezza sul comportamento alimentare e lo stile di vita.

Alla fine dell’attività è stato somministrato ai ragazzi un questionario anonimo nel quale poter esprimere le osservazioni e valutazioni in merito all’attività svolta: emerge una maggioranza di giudizi positivi sull’esperienza e sulla sua utilità, un senso di appagamento sulle aspettative e le osservazioni ‘negative’ riguardavano esclusivamente la durata ritenuta troppo breve. I ragazzi hanno inoltre esplicitando di conoscere prevalentemente i contenuti emersi ma di avere necessità di approfondirli. Tale aspetto rispecchia anche un funzionamento sociale che pare caratterizzato da una trasformazione dell’assetto familiare, dei ritmi quotidiani di vita, una sensazione di crescente instabilità e di conseguenza, un minor tempo e attenzione ai legami e alla comunicazione che purtroppo può evolvere nel farsi compagnia con il cibo o nel non riuscire ad apprendere in maniera profonda e stabile aspetti educativi sul cibo, stile di vita e relazioni con sé e l’altro rischiando, se non approfondito, di compromettere il senso di identità personale soprattutto in un momento dello sviluppo, dove naturalmente regna l’incertezza.

In definitiva… i disturbi del comportamento alimentare non hanno età né corpo! Prevenire è guardare ciò che sembra!
Il lavoro svolto sarà presente anche al BV OFF della Settimana del Buon Vivere 2014

    




EMOZIONI STATI D'ANSIA E MALATTIA (articolo pubblicato su Vivi Consapevole)


Intervista a Debora Battani, psicologa psicoterapeuta di Forlì che da anni lavora sul campo per capire gli effetti del disagio emotivo sulla salute

Intervista a cura di Romina Alessandri

Ciao Debora, ho letto con interesse un articolosul tuo sito (www.dirittiesentimenti.
it) che parla di una ricerca effettuata all’ospedale di Forlì sul peso che l’ansia e l’emotività possono avere durante il processo di guarigione e la degenza in struttura ospedaliera.
Vuoi raccontarci l’esito di questa ricerca?
Come afferma Tomellini “quando il corpo anatomico ci è infedele, ci mette in scacco, ci tradisce, quando non ci riconosciamo nel “nostro corpo”, come se esso non ci rappresentasse come vorremmo, ecco che ci sentiamo vulnerabili, esseri mutanti nel mondo, sottoposti ad un divenire inarrestabile a cui non possiamo sottrarci. Il corpo malato, e le sue ferite, rimandano ad un altrove che «trascende il corpo, fanno appello ad una ricerca di senso insito nella minaccia della malattia e nel possibile disfacimento del corpo.”
Il paziente ricoverato deve affrontare il reparto ospedaliero, diverso dall’ambiente domestico; deve far fronte alla minaccia tangibile alla salute, che il ricovero sottolinea; perde infine, a causa della condizione di malato, il controllo del ruolo, dell’immagine, della relazione interpersonale. Il ricovero in ospedale implica la perdita dell’indipendenza, la separazione dalla famiglia, routine e procedure sconosciute ed inevitabili timori circa il proprio stato di salute. La stabilità cede il posto all’insicurezza e la famiglia e gli amici divengono
visitatori.
Per la ricerca abbiamo usato un questionario, che ha fatto emergere come le persone abbiano avuto la senzazione di "Tempo Fermo"durante la degenza in ospedale. Da parte degli uomini è stato possibile notare maggior imbarazzo e timidezza rispetto le donne, come a mettere in luceun atteggiamento più imbarazzato di fronte all’esporsi parlando di sé, coerentemente con lo stereotipo sociale maschile. Rispetto alla variabile dell’età, si è visto come aumenti anche il numero di test falsati: le persone più giovani hanno invece un numero minore di test falsati come se fossero più allenati a parlare di emozioni o meno preoccupati che l’evento infici la loro vita, o li metta a confronto con il decadimento fisico irrecuperabile, sinonimo di
vecchiaia.
Rispetto alla prognosi, è emerso che, anche tra i pazienti con una prognosi buona, sono presenti elevati livelli d’ansia. Se si pensava che le persone con patologia ortopedica potessero reagire meglio di qualunque altra tipologia di pazienti, come se “le persone potessero essere più preparate a rompersi un osso piuttosto che avere una malattia neurologica”, ma che non è così, poiché anche tra i pazienti con patologia ortopedica è stata riscontrata una percentuale alta di ansia variata, potendo concludere che non è solo la natura dell’evento a influenzare la reazione alla malattia.
Questo fa pensare che è importantissimo prendere in considerazione l’opportunità di un trattamento psicologico anche per queste persone per le quali non ci si aspetterebbe alcuna reazione patologica.
L’attenzione è spesso focalizzata sull’ “organo da riparare” e si rischia di vedere solo il tessuto leso senza considerare a chi appartiene. Nel momento in cui il personale rivolge il suo interesse alla sofferenza del malato, il paziente viene invece considerato in tutta la sua interezza si ottiene cioè il bene della persona. La relazione medico-paziente resta dunque il cardine terapeutico fondamentale, e la priorità degli operatori è quella di porsi nel ruolo di “contenitore” dei vissuti del paziente, aiutandolo a scoprire le proprie risorse, guidandolo nel riconoscimento del proprio disagio attraverso anche la legittimazione di una ansia ‘normale’ cioè legata alla preoccupazione per la propria salute e per la dipendenza da altri per le cure necessarie.
Nelle persone con malattia fisica il conoscere e comprendere la malattia e il sentirsi compresi possono influire sull’andamento della malattia stessa e sulla capacità di modulare la quotidianità in funzione di questo.

Uno degli ambiti in cui ti sei impegnata è la terapia occupazionale, un tipo di approccio che prevede “il fare” come via di uscita ai problemi emotivi. Come
funziona?
Nella Terapia Occupazionale le attività sono sia il mezzo per il trattamento che i risultati dell’intervento, ma non sempre le mansioni usate come strumenti sono poi la conclusione del lavoro: alcune attività sono fondamentali per condurre la persona a scoprire l’utilizzo di risorse, che gli saranno poi utili ed essenziali per altre occupazioni. “il fare, per essere terapeutico, deve essere “un fare essere”, come direbbe Fromm, deve permettere di costruire una maggiore fiducia, un equilibrio, una relazione positiva con il mondo umano e non-umano che lo
circonda.
È attraverso la possibilità di creare oggetti, pensieri, storie e relazioni che si esplica la grande opportunità di cura della T.O.: il contatto tra terapista e paziente sul luogo del “fare” ha una grande valenza riabilitativa e grazie ad esso due mondi, quello del terapista e quello del paziente, si incontrano e proprio da questo contatto prende avvio il percorso del trattamento, che è fatto di impegno per l’evoluzione.
Non è sempre facile farla accettare al paziente perchè è proprio l’espressione della fisicità che è cambiata e genera sentimenti di sconforto e frustrazione sia per il riscontro di non essere più in grado di fare, sia perchè necessitano delle nuove strategie per fare ciò che
si faceva benissimo prima.
Tutto questo è diverso da “ti dico io come si fa” che rappresenterebbe un puro esercizio di funzioni che non favorisce l’evoluzione e non promuove gli apprendimenti che possono portare all’autonomia. Le attività svolte in terapia sono inserite nella storia intima delle persone, nelle sue caratteristiche, nel suo livello di sviluppo motorio, intellettivo e affettivo. La realtà fisica e quella della mente confluiscono e si realizzano nell’oggetto, quindi possiamo dire che il prodotto di una attività è il simbolo di un cambiamento, di un processo esterno ed interno.
Ansia, stress, paura e depressione sono oggi problemi molto diffusi fra le persone che ci circondano.
Perché secondo te, sempre più persone non riescono a prendere in mano la loro vita con serenità e fiducia in se stessi?
Mi viene da pensare che i cambiamenti sociali, economici e di assetto familiare possano avere inciso nell’acquisire un senso di benessere e di sicurezza di base che aiuti a sviluppare capacità per far fronte agli eventi.
Mia nonna diceva che ci si aiutava tutti, si era sempre in compagnia per le attività ad esempio nei campi e alla donna era affidato il compito di addetta al focolare e alla cura-crescita dei figli. Oggi tutti lavoriamo, spesso anche i nonni, questo fa aumentare il livello di stress percepito e il senso di solitudine quotidiano e un atteggiamento orientato al fare e meno al sentire.
E’ possibile così crescere più vulnerabili e con meno legami con funzioni di supporto, aspetti che non aiutano a sviluppare tolleranza alla frustrazione né fiducia verso la possibilità di poter affrontare situazioni difficili visto che si perdono anche i racconti degli eventi, essendo ridotti i momenti dedicati alle relazioni. Inoltre essendo venuto meno l’allenamento al sentire è possibile che i sentimenti spaventino di più. Noto inoltre una maggiore tendenza al conformismo, per la fatica di sentirsi diversi, vissuto come essere ‘non uguali’ invece di ‘unici’.

Quanto peso ha un la mente sul recupero e sul mantenimento della salute?
Attualmente lavoro anche a Villa Igea al Centro Obesità e Nutrizione Clinica e spesso l’aspetto più difficile da accettare per le persone con una patologia ‘così tanto corporea’ è proprio l’aspetto emotivo.
Solo le persone che si mettono in discussione e avviano una psicoterapia o trovano una modalità di accettazione e ascolto dei bisogni psicofisici riescono a costruire un percorso di amor proprio e di cura di sé che permette di non aggravare la malattia e di starci insieme attivamente.
Sempre, ciò che accade nella mente condiziona il corpo e viceversa. È scientificamente provato che quando si è depressi si è maggiormente esposti ad esempio all’influenza e che quando si ha una malattia fisica il tono dell’umore è fisiologicamente più flesso. Io appartengo alla società di psiconeuroendocrinoimmunologia che studia proprio le relazioni esistenti tra tutti i sistemi che ci costituiscono e tutti hanno un peso e si condizionano reciprocamente, quindi la mente può anche condizionare i processi biologici.



ARCHITETTURA DEL BENESSERE
Un nuovo progetto in collaborazione con il Centro Obesità e Nutrizione Clinica di Villa Igea

C'è uno stretto e profondo legame tra spazio abitativo e qualità del benessere. L’Architettura del Benessere progetta, costruisce o semplicemente rinnova lo spazio di casa (e di lavoro) da un punto di vista molto profondo, in quanto verifica in che modo l’ambiente, esterno ed interno, influenza la percezione psico-emozionale dell’uomo attraverso la reazione che il corpo invia in risposta a determinati elementi presenti nello spazio abitativo (lavorativo). Ad esempio: ti è mai capitato di entrare per la prima volta in uno spazio nuovo e di sentire “a pelle” se l’ambiente ti piaceva oppure no? Questa classica sensazione "a pelle" (che funziona anche tra le persone) parla direttamente alla nostra parte più intuitiva e percettiva (si dice una reazione di “pancia”), prima ancora che la mente pensante possa aver fatto un ragionamento a riguardo! Se la sensazione è positiva, il tuo corpo si rilassa, se la sensazione è negativa il tuo corpo si contrae e inconsapevolmente si pone in una posizione di difesa o di fuga per consentirti di metterti al sicuro e protetto. Tali reazioni avvengono inconsapevolmente. L’Architettura Olistica, attraverso i suoi strumenti quali il Feng Shui (Psicologia dello Spazio) e il Decluttering (Rimozione del Superfluo), decodifica quali sono gli elementi concreti dello spazio, che recepiti dai recettori dei tuoi 5 sensi, vengono trasformati in sensazioni e percezioni che possono farti sentire tranquillo e a tuo agio o viceversa ti creano una reazione di chiusura e contrazione fisica, tenendoti in allerta. Questi elementi concreti sono chiamati anche analogici e sono i colori, le forme, i materiali, gli elementi strutturali della stanza, la qualità della temperatura, la qualità dell'illuminazione, tipologia di arredo, i suoni, gli odori, l’ordine, gli accumuli, la tipologia dei tessuti, la proporzione tra pieni-e-vuoti, gli elementi naturali e artificiali del paesaggio e molto altro.

Il progetto realizzato presso il Centro Obesità e Nutrizione Clinica Di Villa Igea ha come obiettivo quello di portare il decluttering all’interno dell’ambito sanitario.

Silvia Ruffilli, Operatrice Olistica Professional, ed Elisa Santi, Architetto, titolari dal 2012 dello Studio Archibenessere, hanno dato vita a un esperimento ambizioso e innovativo: proporre il decluttering come formazione ai pazienti del centro di obesità e nutrizione clinica di Villa Igea.

Il primo contatto è stato con la primaria, dott.ssa Valeria Zaccheroni, una persona attenta alle relazioni umane, che ha subito colto il nesso tra il corpo e la casa, la casa come “corpo espanso”; la dottoressa ha subito capito come un ambiente trascurato, male organizzato, disordinato, poco pratico da vivere e da godere, sia in grado di influenzare i nostri stati d'animo e le emozioni che sono un fattore importante anche nella cura del sovrappeso. In quel primo incontro abbiamo illustrato che il nostro intervento in struttura sarebbe stato di tipo informativo per sensibilizzare le persone a lavorare anche sulla qualità dell'ambiente vissuto ogni giorno, una volta dimessi dalla struttura. A seguire vi è stato l’incontro con i due psicologi di clinica, dott.ssa Debora Battani e il dott. Gian Luca Cesa, con i quali invece abbiamo parlato nel dettaglio dei contenuti da esporre ai pazienti per capire in che modo strutturare e modulare l'incontro, entrambi sono presenti durante gli incontri, e la loro presenza è fondamentale, infatti sono i loro interventi che meglio chiariscono come le dinamiche psicologiche ed emozionali si riflettano tanto nel corpo quanto nello spazio.

Presso il Centro Obesità e Nutrizione Clinica di Villa Igea i pazienti effettuano incontri di sensibilizzazione sulla tematica corpo e casa insieme agli psicologi della struttura. L’esperienza permette di confermare l’ipotesi di partenza, cioè che la casa che scegliamo per vivere la nostra quotidianità ci assomiglia. La nostra casa è la nostra seconda pelle in quanto è la proiezione del nostro sistema corpo-mente in uno spazio circoscritto.

Per questo motivo il legame tra corpo e casa è fortissimo: entrambi gli spazi parlano lo stesso linguaggio, in linea generale possiamo affermare che se ci si trova in un momento personale di confusione mentale, di scarsa chiarezza decisionale, anche l’ambiente dei casa presenterà analogie, attraverso accumuli, arredi disorganizzati, percorsi poco fluidi ecc…

Se a livello emotivo si percepiscono dei vuoti o delle paure di trovarsi impreparati e si tende ad accumulare peso per colmare quei vuoti, anche in casa si avrà la tendenza ad accumulare e a non buttare via nulla, aggravando la situazione di disagio fisico, mentale ed emozionale, senza risolvere il problema alla radice e spesso percependolo come normalità e non riuscendo a rendersi conto del peggioramento emotivo che può comportare per la persona. Si favorisce così lo sviluppo di una condizione di blocco emotivo con sentimenti di impotenza e incuria che non favoriscono l’attivazione ad avere attenzione verso la propria salute e la cura di sé perché non favoriscono la fiducia e l’attivarsi verso il chiedere aiuto e fare evolvere il sentimento di malessere che si prova.

I primi risultati sono molto incoraggianti, e il fatto stesso che siano state così ben accolte da medici e pazienti in un contesto di carattere istituzionale è un segnale tanto positivo. Il progetto nasce dall’idea che essere organizzati non significa essere perfetti o avere una casa da rivista tutta ordinata, significa riconoscere delle priorità e ottimizzare spazio e tempo per dedicarsi alle esperienze appaganti della vita. Il decluttering e l’organizzazione sono strumenti molto importanti, perché gli accumuli disordinati e la disorganizzazione sono il segno di blocchi emotivi. Il decluttering è un metodo strutturato che aiuta ad individuare ed a risolvere le cause dell' accumulo, non si limita a dare trucchetti e consigli, ma fornisce strategie concrete affinché la persona posa iniziare un percorso di alleggerimento dei propri spazi di vita.

Il progetto è nato dalla voglia di aiutare agli altri a capirsi, a crescere e a trovare il benessere. Presso il CONC è stato possibile trovare persone la cui attenzione è già rivolta al corpo, ai suoi meccanismi, al suo legame con la mente e con gli eventi della vita e ciò ha permesso di creare un contesto fertile in cui portare il discorso del rapporto spazio-mente, corpo-casa, e al contempo sostenere qualcuno che si sta impegnando a migliorare le sue condizioni fisiche e mentali.

Qual è la connessione tra decluttering e obesità? La connessione è forte soprattutto intorno all'argomento dei “pieni e vuoti”, così nello spazio come nel corpo, aspetto che viene analizzato dagli psicologi di clinica durante la degenza. L’obesità può essere legata a patologie più prettamente fisiche come una disfunzione ormonale, ma al di là di questo, le cause psicologiche che ci spingono a “riempirci” di cibo sono le stesse che ci spingono a “riempirci” di oggetti che non utilizziamo. In modo simile, gli ostacoli che si incontrano quando si cerca di perdere peso sono simili a quelli che si incontrano quando bisogna lasciare andare gli oggetti “protettivi”. Trattare parallelamente i due aspetti, quindi, può facilitare molto il miglioramento su entrambi i fronti. Quando si alleggerisce il corpo si adotta un nuovo stile di vita per creare una “nuova identità” fisica e psichica. Se lo spazio in cui si vive rimane inalterato, continuerà a riflettere gli errori e i blocchi dell’identità precedente, remando contro a tutto il lavoro fatto in clinica. L’obiettivo, quindi, è spiegare ai pazienti come un nuovo stile di vita fatto di movimento, dieta e nuove abitudini di vita necessita di uno spazio che dopo esser stato liberato e alleggerito venga adeguatamente organizzato.



Esempio di laboratorio espressivo (video tratto da Youtube, esperienza presso Ospedale Privato Villa Igea di Forlì)








RIFLESSIONI TRA IDENTITA' LIUTERIA E NATURA

Dott.ssa Battani Debora

Questo testo nasce dalle riflessioni originate dalla partecipazione alla presentazione di un libro sulla costruzione della chitarra classica. Da psicologo psicoterapeuta quale sono, sono abituata a reagire alle vibrazioni emotive che sento e a riflettere su quanto i comportamenti, le scelte e il nostro fare, hanno a che fare con la salute e in che modo.

In quella occasione mi ha riecheggiato dentro la similitudine tra la chitarra e la natura e l'essere umano.  Ho sentito molto forte il tradurre sullo strumento l'identità del liutaio. Credo che sia molto vero e non scientificamente provabile, quasi magico il plasmare una idea, un progetto mentale in una creazione vera. Guardando diversi liutai che mi e' capitato di incontrare, capisco quanto si avvalgono degli studi che hanno fatto ma di più del loro sentire, della percezione del momento e della relazione tra loro stessi e quello specifico pezzo di legno. È veramente una nascita, un evolvere giorno per giorno, dello strumento ma anche del loro essere professionale.

Questo mi ha fatto tornare in mente come descrive il liutaio Graziani la chitarra e anche il motto che ha usato per un concorso di liuteria "la chitarra come metafora di vita con le sue spalle, fianchi, vita, manico e infine buca dalla quale come fosse un figlio nasce la musica....la metafora del creato."

Lo vivo anche nel mio fare clinico che tutte le attività manuali sono espressione di se', sono un mezzo per lasciare la propria impronta nel mondo e per entrare in contatto con le proprie risorse interne anche quando non credi di averne più, come nelle forme di terapia occupazionale. E le attività manuali hanno di per se' un potere terapeutico, credo faccia sentire 'in grado e capaci' riuscire a costruire uno strumento musicale e sentire che suona e viene apprezzato. Una legittimazione e un riconoscimento. Da identità proprio come un figlio, che aiuta anche ad avere una prospettiva per il futuro, per l'avere fiducia e per costruire la tenacia necessaria alla vita. Come se ricordasse sempre un senso, un motivo, una fonte di vita.

Ho pensato anche che da un pezzo di natura, viene fuori una nuova natura: dal legno, lo strumento tramite la passione. E come i neonati che crescono se sollecitati, anche alla chitarra serve un tempo di maturazione che è soggettivo, come per le persone... e varia con le esperienze, con "quanto vieni suonato". E che come le persone da emozioni e sa vibrare in più parti. E in diversi modi. E non ultimo nasce da un'emozione!

Durante l'esposizione del libro mi ha colpito trovare la parola relazioni in tanti aspetti: tra i pezzi della chitarra, tra il liutaio e la chitarra, tra le note.... come le persone che senza relazioni 'stonano'.

L'attività di liuteria mi pare quindi descriva una ricetta di vita: non esiste un metodo perfetto per vivere ne' per costruire, si possono scrivere 1000 libri e 1000 teorie ma ogni volta devi plasmare su un unico pezzo di legno quello che serve e lo puoi fare solo con il sentire e la riflessione attenta, tale aspetto nel mio lavoro si chiama consapevolezza. Come afferma il maestro Primo Pistoni “veri e propri trucchi non esistono, se non quello di dedicare una particolare attenzione all'assemblaggio dello strumento come identità sonora. D'altronde, aldilà dell'estetica, uno strumento serve per suonare. Un segreto, un ingrediente magico che non può essere ripetuto, replicato, che resiste agli innumerevoli tentativi di contraffazione. D'altronde, questo si sa, Paganini non ripete."

Infine mi ha risuonato molto questa riflessione per tanti motivi, sicuramente intimi, ma anche la mia spinta ad identificare in alcuni fare, dei metodi protettivi per la salute: da sempre penso che questo spazio creativo e salutare che la costruzione rappresenta consenta inoltre di riuscire a tollerare le fatiche del lavoro e della quotidianità. Non solo nell'azione del fare ma anche tramite la passione rivissuta del pensarla e raccontarla.

Non penso che si possa interrompere una spinta come questa se ce l'hai dentro, vorrebbe dire rinunciare ad un pezzo di se' stessi e di vita, quindi di promozione della salute.

“IL SAPER FARE LIUTARIO: DALLA CONOSCENZA DEL LEGNO ALLA TRADIZIONE DELLO STRUMENTO MUSICALE “ (Marassi)

Come afferma Marassi “Ritengo che parlare del saper fare liutario debba avere il suo incipit nella conoscenza del legno.  Esso è la materia: materia prima che viene trasformata dalle mani del liutaio. Il legno assume così  ulteriore forma: quella dello strumento. Ma, prima  di procedere, è necessaria qualche precisazione  proprio sulla funzione della materia: sul rapporto  fra questa e il manufatto.  Il legno possiede caratteristiche che le mani del liutaio rivela. Nel rivelarle il legno assume nuova  forma.  Il costruttore deve avere un’idea e adeguate capacità per realizzarla. Così, la materia assume  nuova identità: quella dell’opera. È impensabile un liutaio senza un blocco di abete. Nel legno c’è la potenzialità del suono, nell’opera del liutaio c’è  l’attuazione di un progetto. Il legno non ha la sonorità dello strumento, ma se nel legno non ci fosse la potenzialità della voce a nulla varrebbe l’abilità del liutaio.[...] La curiosità favorisce il metodo induttivo.”

I legni cambiano le loro caratteristiche in base al luogo dove crescono, al clima, all'esposizione al sole o al vento, altitudine e velocità di crescita delle piante, come vengono tagliati e serve un tempo di stagionatura perché possano essere utilizzati. Mi sembra interessante sottolineare quanto legno e persona abbiano in comune: condizionamenti esterni che ne determinano lo sviluppo e l'evoluzione. Anche la persona ha bisogno di un tempo per riconoscere le sue caratteristiche, un tempo per maturare e identificare la sua strada... metaforicamente per diventare lo strumento musicale che  può diventare piu' efficacemente.

“La conoscenza matura nel tempo, l’esperienza guida. Il legno è il materiale che dà l’identità primaria a uno strumento. Si tratta di quell’imprinting che  viene ancor prima della sua lavorazione”. Come lo stupore per la bellezza dello strumento finito che da la curiosità e la passione per approfondire la tecnica per il liutaio. In gergo si usa dire 'seguire il verso del legno’ nella sua lavorazione, proprio perché è il legno ad indicare i metodi di lavorazione come la passione che indica la strada per la sperimentazione. L'occhio del liutaio deve imparare a vedere e riconoscere.

“[…] In molti esperti affermano che l'osservazione e la sperimentazione costituivano il metodo più congruo per affrontare il problema. E' necessario procedere tramite studi comprovati ma anche da quelle intuizioni che solo chi sa fare e' disposto a sperimentare. E' su questo che si fonda il sapere fare il liutaio, risultato di molteplici competenze e abilità: arte” come afferma Marassi.

La ricerca estetica non sembra essere la sola guida nella realizzazione della forma, ma diversi aspetti tra loro interagenti, debbono costruire il piano di lavoro per la costituzione degli strumenti:
- osservazione della storia dello strumento e della evoluzione attuale, alla ricerca di un proprio stile. Gli strumenti si riconoscono e ciascuno possiede una identità che lo contraddistingue scelto dal suo creatore
- scelta dei materiali e delle modalità costruttive che consentano allo strumento di ottenere un timbro unico e di durare nel tempo
- il rapporto con il musicista che vive lo strumento come prosecuzione di se' stesso

[…] Ogni strumento possiede un proprio timbro unico, si deve osservare come questo, alla pari della voce umana, nel tempo si modifichi. Se lo strumento porta in sé i segni delle sue trasformazioni e dei restauri in quanto il legno ne porta traccia, il suono si sottrae alla memoria e non si lascia documentare se non, oggi, attraverso le registrazioni. “

L'IDENTITA'

Il concetto d'identità, nella sociologia, nelle scienze etnoantropologiche e nelle altre scienze sociali  riguarda la concezione che un  individuo ha di se' stesso nell'individuale e nella societa', quindi l'identità è l'insieme di caratteristiche uniche che rende l'individuo unico e inconfondibile, e quindi ciò che ci rende diverso dall'altro. L'identità non è immutabile, ma si trasforma con la crescita e i cambiamenti sociali.
La personalità è un concetto tipicamente dinamico nell'arco di vita di una persona e gli esseri umani affrontano, durante tutto l'arco della loro vita, alcuni nodi cruciali di passaggio necessari per evolvere una maturazione psicofisica adeguata al contesto sociale. Le varie fasi possono essere distinte come segue: la prima infanzia (dai 0 ai 3 anni), lo svezzamento, la fase del no, i  conflitti, la prima socializzazione (età scolare), la pubertà, l'adolescenza (la formazione dell'identità  maturando l'indipendenza di pensiero con l'acquisizione, in una prima fase, di valori conformisti nei confronti del gruppo di appartenenza, ma trasgressivi nei riguardi dei valori sociali e, in una successiva, di accettazione delle figure simbolo della società come insegnante, genitore, ecc.). La vita adulta in cui il soggetto cerca di realizzare il suo progetto di vita (lavoro, famiglia ecc.), definendo il più possibile la sua identità, distaccandosi dal nucleo familiare originario e rendendosi il più possibile socialmente indipendente. Infine l'anzianità.
Si desume quindi che un liutaio possa avere sviluppato questo interesse tramite la costruzione di un significato affettivo particolare nella prima infanzia, ad esempio avere giocato con il legno e costruito qualcosa di piacevole con il padre.

Piaget è considerato il fondatore dell'epistemologia genetica, ovvero dello studio sperimentale delle strutture e dei processi cognitivi legati alla costruzione della conoscenza nel corso dello sviluppo, e si dedicò molto anche alla psicologia dello sviluppo.

Piaget dimostrò innanzitutto l'esistenza di una differenza qualitativa tra le modalità di pensiero del bambino e quelle dell'adulto e, successivamente, che il concetto di capacità cognitiva, e quindi di intelligenza, che è strettamente legato alla capacità di adattamento all'ambiente sociale e fisico. Ciò che spinge la persona a formare strutture mentali sempre più complesse e organizzate lungo lo sviluppo cognitivo è il fattore d'equilibrio, «una proprietà intrinseca e costitutiva della vita organica e mentale». Lo sviluppo ha quindi un'origine individuale, e fattori esterni come l'ambiente e le interazioni sociali possono favorire o no lo sviluppo, ma non ne sono la causa.

Riprendendo le idee di Baldwin, sostiene che i due processi caratterizzanti l'adattamento siano l'assimilazione e l'accomodamento, che si avvicendano durante l'intero sviluppo. L'assimilazione e l'accomodamento accompagnano tutto il percorso cognitivo della persona, flessibile e plastico in gioventù, più rigido con l'avanzare dell'età.
L'assimilazione consiste nell'incorporazione di un evento o di un oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito. In pratica il bambino utilizza un oggetto per effettuare un'attività che fa già parte del suo repertorio motorio o decodifica un evento in base a elementi che gli sono già noti.
L'accomodamento consiste nella modifica della struttura cognitiva o dello schema comportamentale per accogliere nuovi oggetti o eventi che fino a quel momento erano ignoti.

I due processi si alternano alla costante ricerca di una omeostasi (equilibrio fluttuante). Quando una nuova informazione non risulta immediatamente interpretabile in base agli schemi esistenti il soggetto entra in uno stato di disequilibrio e cerca di trovare un nuovo equilibrio modificando i suoi schemi cognitivi incorporandovi le nuove conoscenze acquisite, in un'ottima di potenziale capacità di acquisizione permanente.Questo è ad esempio quello che avviene quando un liutaio modifica lo stampo o le caratteristiche del suo strumento, a seguito di una nuova ‘intuizione’ o di nuove acquisizioni.

LACREATIVITA'
Creatività è un termine che indica genericamente l'arte o la capacità cognitiva della mente di creare e inventare; tuttavia esso può prestarsi a numerose interpretazioni e significati.
«La creatività è un tentativo di risolvere un conflitto generato da pulsioni istintive biologiche non

scaricate, perciò i desideri insoddisfatti sono la forza motrice della fantasia ed alimentano i

sogni notturni e quelli a occhi aperti.» (Sigmund Freud)

«La creatività non è altro che un'intelligenza che si diverte.» (Albert Einstein)

La creatività è mettere in connessione le cose...» (Steve Jobs)

Il verbo italiano "creare", al quale il sostantivo "creatività" rimanda, deriva dal "creare" latino, che

condivide con "crescere" la radice KAR. In sanscrito, "KAR-TR" è "colui che fa" (dal niente), il creatore.

Per saper creare è necessario fare esperienza. In filosofia il termine esperienza si riferisce a diversi significati:

·      -  nella conoscenza è il momento in cui interviene la sensazione;

·      -  riguardo alla sensibilità interiore è la percezione intuitiva, immediata, di un sentimento o un'emozione

-  nella filosofia della scienza è il fondamento delle osservazioni scientifiche basa sensate esperienze» e sulle sulle «dimostrazioni necessarie»: quello che gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono..»

La conoscenza è la consapevolezza e la comprensione di fatti, verità o informazioni ottenute attraverso l'esperienza o l'apprendimento (a posteriori), ovvero tramite l'introspezione (a priori).

La conoscenza è l'autocoscienza del possesso di informazioni connesse tra di loro, le quali,

prese singolarmente, hanno un valore e un'utilità inferiori.

I racconti di artigiani mi hanno indotto a riflettere su molti aspetti della formazione del sé e dello sviluppo di competenze professionali. Tra le considerazioni che ricorrono più frequentemente vi è sicuramente il connubio inseparabile tra manualità e creatività che caratterizza profondamente il lavoro artigianale: indipendentemente dai materiali utilizzati e dal prodotto da realizzare, gli artigiani richiamano costantemente il gioco dinamico tra mano e testa come componente fondante dei propri processi di lavoro.

Realizzare un manufatto in legno o in metallo o in stoffa, richiede di certo l’applicazione rigorosa di procedure, ma contemporaneamente consente all’artigiano di esplorare, attraverso la creatività, nuove strade per risolvere un problema e ottenere il risultato atteso.

Gardner afferma che “è errato ritenere che esista qualcosa chiamata intelligenza, come fattore unitario misurabile attraverso un parametro numerico. Al contrario, essa è contraddistinta in una notevole varietà di forme raziocinanti e creative che rappresentano sette modi diversi di conoscere il mondo: linguaggio, analisi logico-matematica, rappresentazione spaziale, pensiero musicale, uso del corpo, comprensione degli altri e comprensione di sé. Ciò che distingue gli individui sono i modi con cui queste intelligenze sono chiamate in causa e combinate per portare a termine compiti e risolvere problemi. Ognuno di noi può sviluppare le diverse intelligenze se siamo messi in condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e formazione. Alla luce di questa consapevolezza, occorrerebbe superare il principio per cui tutti possono apprendere le stesse cose allo stesso modo: è necessaria un’apertura verso una più ampia gamma di esperienze formative in grado di tener conto della complessità della formazione umana. “

 La realizzazione di un prodotto o manufatto artigianale sembrerebbe un’importante palestra per la scoperta e il rafforzamento di molte di queste intelligenze. Forse, l’esercizio della manualità, potrebbe recuperare anche abilità oggi assopite, nell’era della smaterializzazione e informatizzazione del lavoro come quella in cui siamo. 

 Il mondo dell’artigianato è anche, per molti, una buona palestra sociale, dove sperimentare le proprie abilità comunicative e relazionali: l’artigiano, oltre a produrre i propri manufatti, deve anche farli conoscere e apprezzare sul territorio, deve acquisire e fidelizzare nuovi clienti, interpretare le loro richieste e negoziare con loro il risultato finale.

L’artigianato sembrerebbe quindi una buona opportunità per lo sviluppo di competenze professionali trasversali (fronteggiare e risolvere problemi, progettare e organizzare fasi di lavoro, comunicare e rapportarsi con gli altri, interpretare bisogni e richieste, presentarsi in maniera efficace, lavorare in gruppo), fondamentali per la formazione del sé. 

 A questo proposito, occorre precisare che il filo conduttore di tutte le forme di artigianato è sicuramente la passione, che rappresenta la principale motivazione al lavoro manuale: i mestieri artigianali sono qualcosa di più di una semplice applicazione tecnica, ma comportano un forte coinvolgimento affettivo in ciò che si sta realizzando. La gratificazione principale nasce dal seguire il processo di lavoro dalla fase iniziale di ideazione fino alla contemplazione del proprio manufatto. Il prodotto finale è a tutti gli effetti figlio dell’artigiano, fonte e concentrazione di pathos, rappresentazione visibile e condivisibile di sé. 

In realtà, l’artigianato e quindi anche la liuteria, oltre ad essere spesso un’opportunità occupazionale interessante, consente livelli di gratificazione e di empowerment il più delle volte ignorati o sottovalutati. 

Esiste anche una forma di terapia che usa il fare: la terapia occupazionale

Il luogo di Terapia Occupazionale è una stanza con una varietà di materiali e oggetti che invitano al “fare”, un luogo in cui la possibilità di scegliere è sempre presente:  un’opportunità che rappresenta il riconoscimento della soggettività del paziente.  Ogni scelta viene presa in considerazione dal terapista insieme al paziente, anche la  non-scelta.

Durante lo svolgimento delle attività avviene la trasformazione dei materiali: acqua e farina diventano una pizza profumata, un foglio di compensato una scatola per conservare gli oggetti più cari, terra e semi, una pianta....

Tale trasformazione nella stanza di terapia è accompagnata da un cambiamento interiore: un processo parallelo dove le emozioni e i pensieri vengono traghettate dal “fare”.

In quest’ottica di stretta connessione tra azione e pensiero si pongono le attività, strumento privilegiato della terapia occupazionale.

Come mette in luce Robert White quando parla dell’aspetto motivazionale della competenza, il percorso terapeutico così creato può avere la funzione di creare inoltre un ponte reale tra esperienze passate e il futuro del paziente. Ho avuto modo di osservarlo durante la mia esperienza con le persone con disabilità acquisita.

E’ attraverso la  possibilità di creare oggetti, pensieri, storie e relazioni che si esplica la grande opportunità di cura  della T.O.: il contatto tra terapista e paziente  sul luogo del “fare” ha una grande valenza riabilitativa e  grazie ad esso due mondi, quello del terapista e quello del paziente, si incontrano e proprio da questo contatto prende avvio il percorso del trattamento, che è fatto di impegno per l’evoluzione (come tra l'altro tra liutaio e musicista).

Il compito del terapista è cercare di capire le risorse e le difficoltà intorno alle occupazioni della vita, l’approccio è alla persona come 'persona in grado di fare delle cose': prima si accertano le risorse e gli interessi della persona, poi si affrontano i problemi specifici con l’intervento mirato.

Tutto questo è diverso da “ti dico io come si fa” che rappresenterebbe un puro esercizio di funzioni che non favorisce l'evoluzione e non promuove gli apprendimenti che possono portare all'autonomia (come avviene ad esempio quando si costruisce una copia di uno strumento).

“il fare, per essere terapeutico, deve essere “un fare essere”, come direbbe Fromm, deve entrare costruire una maggiore fiducia, un equilibrio, una relazione positiva con il mondo umano e non-umano che lo circonda, deve permettergli, con le sue attività motorie e ludiche, il passaggio da momenti “primitivi” a momenti più strutturati”.

La realtà fisica e quella della mente confluiscono e si realizzano nell’oggetto, quindi possiamo dire che il prodotto di una attività è il simbolo di un cambiamento, di un processo esterno ed interno. Il prodotto non deve essere rifinito e ben riuscito ma deve essere il risultato di un processo evolutivo e la persona deve poterlo riconoscere come suo e avere da esso la conferma che le sue azioni lasciano un segno nella realtà, che hanno un effetto. Produrre un effetto, raggiungere l’obiettivo desiderato è fonte di grande soddisfazione. L’esperienza del sentirsi competenti dà una spinta propulsiva al desiderio di impegnarsi nel processo terapeutico. Rende concreta la motivazione e può aiutare a dare significato all'esistere.

Personalmente in un momento di grande strappo tra due fasi di vita un hobby è stato la mia Terapia occupazionale. Attraverso la manipolazione, l'assemblaggio, le prove di tenuta dell'oggetto, la contentezza del risultato, la piacevolezza e l'approvazione ricevuta degli altri, ho ritrovato energia per evolvere aiutandomi a riconoscere che quel vuoto non era incapacità, ma potere e spazio generativo, potendo riacquistare una stima di me e un sentimento di ben-essere maggiore.

L'AUTOSTIMA

L'autostima è il processo soggettivo e duraturo che porta il soggetto a valutare e apprezzare se stesso tramite l'autoapprovazione del proprio valore personale fondato su autopercezioni. La parola autostima deriva appunto dal termine "stima", ossia la valutazione e l'apprezzamento di sé stessi e degli altri. Il nostro senso di autostima deriva da elementi cognitivi ovvero il bagaglio di conoscenze di una persona, la conoscenza di sé e di situazioni che vengono vissute dal soggetto; elementi affettivi che vanno ad influenzare la nostra sensibilità nel provare e ricevere sentimenti, che possono essere stabili, chiari e liberanti; elementi sociali che condizionano l'appartenenza a qualche gruppo e la possibilità di avere un'influenza sul gruppo, di ricevere approvazione o meno dai componenti di quest'ultimo.

L'autostima ha la caratteristica fondamentale di essere una percezione prettamente soggettiva e, in quanto tale, non stabile nel tempo ma dinamica e mutevole. Il senso di autostima deriva principalmente dalle relazioni che ogni persona interiorizza e rielabora, sia le relazioni che vanno verso noi stessi che quelle interpersonali. Da questo deriva il fatto che le persone influenzano in continuazione il loro senso di autostima e a loro volta sono influenzate da esso.

Lo strumento come la persona e' fatto di parti modificabili e parti non modificabili. Inoltre entrambi reagiscono, per come sono fatti, agli stimoli esterni. La liuteria, quindi come fare e come atto simbolico può rappresentare un modo per mantenersi sani e riconoscersi, attraverso una esperienza interna anche di sicurezza percettiva e come strumento espressivo di una propria capacità. L'importante è riconoscere che ‘faccio perché sono’ e quindi introiettarlo/riconscerlo come propria capacità.

La rappresentazione di sé è quel sistema di convinzioni, aspettative, valori che il soggetto costruisce nel corso del tempo in relazione alla propria persona. Il modello educativo ricevuto, l’identificazione con i genitori o con altre figure di riferimento del proprio ambiente, le influenze del contesto sociale concorrono a formare un insieme di schemi che l’individuo utilizza per dare un senso alle esperienze della sua vita. Sono idee e pensieri su come ci si debba comportare, valori religiosi, etici o politici, convinzioni sul mondo e sugli altri. Ad un livello più intimo, più personale, troviamo abitudini e modi di essere che riguardano la gestione delle emozioni, gli atteggiamenti nelle relazioni, l’immagine che si desidera avere agli occhi degli altri. Tutti i pensieri, le emozioni, i comportamenti vengono messi a confronto con la rappresentazione di sé.

L’influenza è reciproca: l’esperienza presente condiziona l’immagine di sé, che a sua volta modifica l’interpretazione dell’esperienza. Una tappa quindi importante per ogni liutaio è rappresentata dall'uscire dal proprio laboratorio per mostrarsi e confrontarsi con i pari e tale tappa si conquista quando l'oggetto esterno costruito corrisponde in tutti i suoi aspetti a quello costruito internamente. Questa tappa consente di costruire un senso di appartenenza che mette insieme ‘fare ed essere’ e può dare identità e autostima. E' per questo che richiede anche un tempo di 'stagionatura' professionale. Anche l'esperienza del pagamento successivamente, rappresenta un aspetto importante dello sviluppo della personalità, ha a che fare con la valorizzazione e il riconoscimento di sé ed è spesso difficile da conquistare anche per i liutai.

“Sappiamo ciò che siamo ma non sappiamo ciò che potremmo diventare (William Shakespeare)

“Volerò disse il bruco. Tutti risero. Tranne le farfalle (Cit.)

Bibliografia:

http://www.dirittiesentimenti.it

https://psicologia.tesionline.it/psicologia/article.jsp?id=27343

Wikipedia

https://www.museodelviolino.org/it/

https://www.confartigianato.it/2011/04/la-liuteria-cremonese-simbolo-dellidentita-culturale-italiana/

https://qui.uniud.it/notizieEventi/ateneo/l2019artista-liutaio-gio-batta-morassi-dottore-honoris-causa-in-discipline-della-musica-dello-spettacolo-e-del-cinema/la-lectio-di-gio-batta-morassi

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1986/10/26/professione-liutaio.html?refresh_ce




LA VITA CHE RICOMINCIA DOPO LA QUARANTENA

E se ciò che ci è accaduto ci desse la possibilità di essere oggi
migliori di chi eravamo ieri?

La fatica a riadattarsi è tanta: c’è ancora molto timore e tutto diventa più faticoso da tollerare
nel quotidiano. Inizia una fase diversa, con la necessità di integrare paura e desiderio di ripartire. Forse c'è un modo per aiutarci cioè valorizzare l’oggi e ciò che abbiamo. È vero che può sembrare poco, e so bene come i ricordi spingano: vanno verso quella che ci sembrava libertà e un bel modo di vivere, di qualità, verso quella “vecchia” vita che forse solo ora ci accorgiamo di quanto fosse bella, piena e magari a confronto con l'oggi soddisfacente.

Nella mia professione da sempre incontro persone scontente verso ciò che hanno. Incontro persone stanche che si sentono di dare poco nei loro ruoli di mamma e babbo, dovendo incastrare i ritmi pressanti e poco umani della nostra società. Incontro coppie che non hanno il tempo di essere coppie, non hanno il tempo dell’oggi e persone che soprattutto si trovano a occuparsi della propria salute solo quando viene intaccata da una malattia, con tanta rabbia e tormento, e che non si chiedono se potevano prendersi più cura di loro stessi fin da prima.
Forse una criticità del nostro modo di vivere era la frenesia, il vivere per obiettivi e prestazioni che una volta conquistati, lasciavano il posto al progetto successivo. E anche prima, seppur in un modo diverso, c’era la paura di non farcela, di non arrivare. Poco spazio per i sentimenti, per i legami, eh sì, quelli che ci sono mancati tanto in quarantena. E perché non li vivevamo prima? La risposta era sempre la stessa: non avevamo abbastanza tempo, travolti da una società veloce e convulsa, con i suoi meccanismi a volte forsennati.

La società siamo noi
La società è fatta di persone, siamo noi a determinarla. E questa è una grande fortuna, perché allo stesso modo, siamo noi che possiamo cambiarla.

"A mio parere quello che è successo, il modo di vivere che il virus ci ha messo di fronte, può aiutarci a ricostruire una società migliore, più a misura d’uomo! E nel ricostruirla possiamo dare maggiore importanza a ciò che desideriamo veramente: affetto, tempo e salute… Soprattutto la salute!"

Lo so, è difficile accettare che la situazione dei mesi scorsi, che ancora oggi ci trasciniamo dietro, abbia del buono, ma io sono certa che dietro ogni crisi ci sia una grande opportunità, se sappiamo vederla e coglierla.
Accettare è un processo psichico impegnativo e richiede una mente in grado di stare in quello che sta accadendo, dentro e fuori di noi, inoltre richiede tempo.

Abbiamo passato tante fasi: la tristezza, l’incredulità, la rabbia, la paura di ammalarci, di non farcela ad andare avanti, di non riuscire ad adattarsi e di non avere i mezzi economici... Poi gradualmente abbiamo vissuto un altro lato della medaglia: meno stanchezza, meno rabbia, meno stress, la voglia di sorridere che ritorna, ci siamo inventati pic nic davanti al garage, canzoni al balcone e pian piano siamo stati meglio. Non è magia, ma un lavoro intenso dentro di sé e di allenamento a sconfiggere la frustrazione.
Per andare avanti serve la capacità di essere lucidi, serve darsi il tempo di capire cosa stiamo vivendo e come possiamo starci di fronte, serve lasciarci aiutare. Un elemento che mi ha dato moltissimo sollievo e fiducia in quei mesi di isolamento è aver assistito a una celere capacità dei miei compaesani di reagire e mettersi a disposizione degli altri. La dimostrazione che andare avanti è una necessità, ma lo si può fare con più partecipazione e unità.
E questo mi ha fatto ben sperare, anche nel domani!

Riscoprire noi stessi, gli affetti e il valore del tempo

Siamo dovuti stare a stretto contatto con noi stessi, con i nostri pensieri, ma anche con i nostri familiari. In molti abbiamo riscoperto il calore del focolaio e delle cose semplici. Abbiamo utilizzato la tecnologia non per i numeri ma per i contatti umani, per sentirci meno soli. Avendo più tempo, alcuni lo hanno utilizzato per scoprire nuove passioni o dedicarci a quelle già nel nostro cuore. Alcune persone sono riuscite a dare valore ai minuti, leggendo, scrivendo, dipingendo, cucinando, o magari con un po’ di meditazione o con l’attività fisica casalinga, reinventandosi ed esplorando oltre la zona di comfort. E continueranno probabilmente a fare tutto ciò, anche finita la quarantena: ciò che sembrava solo un modo per riempire il tanto tempo in casa è rimasto invece una piacevole abitudine, una consapevolezza con cui vivere il meglio possibile oggi, ma in realtà sempre.
Una carissima amica mi ha aiutato a riflettere sul significato anche del sacrificare, inteso anche come “rendere sacro”. Sarebbe auspicabile pensare anche di saper gustare ciò che torneremo a vivere e che ci è mancato tanto in questo tempo, con gusto, con il piacere delle piccole cose e non con un meccanismo bulimico di possesso e che portava a vivere tutto come un piacere effimero, stile lista della spesa da depennare una volta fatto.
Personalmente sono stupita di alcuni aspetti di solidarietà che mi commuovono, e mi danno speranza per il futuro.
Resta da elaborare questa fase inaspettata di vita, questa dura prova. È naturale che non ci sono solo evoluzioni positive ma anche bilanci negativi, rispetto ai sentimenti di perdita e mancanza di persone o situazioni, che è necessario fare. Molte persone ne usciranno con bilanci anche rispetto alle relazioni personali, sociali o lavorative ma se vanno nell’ottica del legittimare qualcosa che per paura non riuscivamo ad ascoltare o a mettere in atto, forse possono comunque
essere passaggi utili per essere se stessi.

L’emergenza è stata – ed è tuttora – una dura prova ma ha svelato elementi sottovalutati e che possono fare la differenza nella vita di ognuno di noi.
Come ho già detto, i bilanci non sono solo in positivo, ovvio, tante sono state le perdite, le mancanze o il peggioramento di situazioni preesistenti. C’è chi ha fatto i conti con una relazione insoddisfacente, chi con un lavoro non appagante, chi con un vuoto immenso dentro il cuore, che per paura di ascoltare, non è riuscito a risolvere. Tanti però ora hanno preso decisioni che prima non avrebbero preso mai! Sono cambiati, si sono rimessi in gioco, hanno deciso di ricostruire la propria vita, in base alle proprie volontà personali, e questo è un grande passo verso la consapevolezza collettiva. Può essere il momento giusto!

"È pro
prio questa la nostra sfida quotidiana, ancora oggi: costruire consapevolezza di sé, per scegliere ed esprimere tutta la nostra “potenza personale”. Oggi è il mio spazio, ricordiamocelo sempre, e tanti oggi fanno la vita!"

Quando serve un aiuto
Pensare a un percorso costruttivo del proprio essere può essere molto difficile. È un faticoso lavoro mentale in cui, a volte, da soli, ci si perde e rassegna. Per questo è possibile farsi aiutare: un supporto per riuscire a stare in equilibrio, fino a che non ci sarà un sufficiente grado di benessere. Ad oggi la maggior parte di psicologi e psicoterapeuti è online e dubito che questa metodica si perderà. In più, la Sipnei (Società di psiconeuroendocrinoimmunologia) di cui faccio parte, che studia i rapporti tra la psiche e gli altri organi, ben illustra l’importanza e il condizionamento dello stato emotivo sulla salute fisica delle malattie.
"Il fuori non lo scegliamo, il dentro possiamo coltivarlo."




libro copertina

Salute in musica

Debora Battani, Anna Maria Bellagamba, Luciana Bigazzi, Valeria Zaccheroni, Gian
Luca Cesa, Irene Del Gobbo, Maria Rosaria Ritacco, Davide Sisti


Condivisione dei risultati di una sperimentazione avvenuta con i pazienti seguiti
dal Centro Obesità e Nutrizione - Clinica Villa Igea di Ospedali Privati Forlì (pazienti
affetti da grande obesità e disturbi del comportamento alimentare tipo
Bingeeatingdisorder), e con i pazienti ricoverati presso una Residenza a Trattamento
Riabilitativo dell’AUSL Romagna, sede di Forlì, per verificare gli effetti della musica
su ansia e depressione con l'impiego di musiche composte da Luciana Bigazzi (SOIR
DE TUBEREUSE, BLUE MOON ROSE, WHITE ROSES)

La ricerca si è realizzata somministrando i questionari BDI e STAI in forma anonima
come test e retest dei 3 brani musicali, a seguire sono stati svolti dei momenti di
confronto sull’esperienza con i partecipanti.

risultati sono riferiti all’effetto di una unica somministrazione musicale (durata 12
minuti circa). Sono stati analizzati i risultati nei diversi ambiti di intervento:
6) STUDIO: pazienti seguiti in psicoterapia di gruppo (7 pz su 8 totali hanno
anche problematiche alimentari)
7) AMBULATORIO: pazienti seguiti a domicilio del centro obesità e nutrizione
clinica (conc*)
8) DH: pazienti che effettuano percorso semiresidenziale a cadenza settimanale a
termine presso il conc
9) REPARTO: pazienti ricoverati presso degenza conc

Nel conc i livelli di intervento seguono tendenzialmente i livelli di compromissione
della patologia (minore a livello ambulatoriale fino al grado massimo nel ricovero)

l RTR - Residenza a Trattamento Riabilitativo Zignola– AUSLRomagna,
ambito di Forlì): pazienti ricoverati in fase post acuta con disagio psichico. E’
l’unico gruppo che ha effettuato diverse somministrazioni agli stessi
partecipanti

l Gruppo di controllo

L’ipotesi di partenza era verificare se persone affette da obesità e/o disturbi del
comportamento alimentare utilizzino il cibo come modulatore degli stati emotivi,
strumento di compensazione di disagio psichico o carenze. Verificare, inoltre, se le
persone con alessitimia ed una scarsa capacità di tollerare le frustrazioni, abbiano la
capacità di sentire e reagire allo stimolo musicale in quanto questo tipo di stimolo si
esprime e agisce passando dal non verbale, toccando la dimensione emotiva senza
l’utilizzo o il controllo di quella razionale, intellettuale.

I dati personali raccolti riguardano: età, genere, grado di istruzione, se è in corso un
supporto psicologico, psichiatrico o entrambi, se utilizza strumenti musicali. Se si,questi vengono messi in relazione ai risultati ottenuti con la ricerca, formulando
ipotesi interpretative che verranno messe in luce nel poster.
Sono emerse interessanti riflessioni non solo dall’analisi del dato numerico ma anche
sul versante comportamentale che confermerebbero quanto la Musica sia fonte di
benessere anche con questa tipologia di persone.
Con il recupero della visione olistica, proprio in virtù del fatto che mente e corpo sono
strettamente intercorrelati, molte patologie possono concretamente beneficiare della
terapia con la musica in quanto viene stimolata un’interazione tra corpo e mente
bidirezionale. Quando i suoni dalle orecchie arrivano al cervello cambia la biochimica
del corpo. Come numerose ricerche hanno dimostrato, l’ascolto della musica
influenza lo stato di salute del nostro corpo attraverso quattro vie: il piacere, lo stress,
il sistema immunitario e l’aggregazione sociale .Queste vie di azione della musica sul
nostro corpo sono regolate dalle variazioni chimiche di ormoni quali la dopamina e gli
oppioidi, il cortisolo, la serotonina e l’ossitocina. La musica, inoltre, stimola e
incrementa la neuroplasticità cerebrale e tale multiforme fenomeno è stato
testimoniato dalle Neuroscienze.
Molti studi hanno evidenziato come la musica riesca ad abbassare i livelli di stress
che sappiamo essere la causa della maggior parte delle malattie.

La ricerca viene intesa come opportunità per comprendere un futuro utilizzo di questo
stimolo nella pratica clinica. Non risulta esistano altre ricerche sull’utilizzo, in questo
senso, della musica con le tipologie di pazienti prese in esame.
* conc si riferisce Centro Obesità e Nutrizione Clinica



L’emergenza mediata Debriefing con un gruppo di studenti interpreti e mediatori nell’Hub di Bologna

Introduzione

Come la guerra sia entrata nelle nostre vite di cittadini europei, pur essendo ancora a una distanza tale da consentirci di scegliere se occuparcene o glissare, è una questione per cui spenderemo certamente energie nel prossimo futuro, con equilibri geopolitici che influenzeranno sempre di più il nostro presente.

Chi sceglie di operare negli scenari in cui si sviluppa l’emergenza, prima di tutto deve fare i conti con il tema dell’imprevedibilità degli eventi e di come questi possano velocemente modificarsi, richiedendo capacità di rapida analisi e di ridefinizione delle risposte, affinché queste possano concretizzarsi in tempi coerenti con i bisogni.

Per questa ragione, nella fase di avvio delle prime azioni belliche perpetrate dalla Russia, è stato subito chiaro che come professioniste volontarie della Società Italiana di psicologia dell’Emergenza Social Support dell’Emilia Romagna (Sipem SoS E.R.), fosse necessario aprirsi all’idea di intercettare ogni spunto utile a intraprendere azioni di supporto, consapevoli che la complessità del momento avrebbe richiesto grande cautela.


Come nasce il progetto: la richiesta di aiuto

L’Università di Bologna ha pensato di raccogliere e mettere a disposizione dell’Hub di Bologna, deputato alla prima accoglienza di profughi ucraini, le disponibilità di studenti che parlassero bene ucraino o russo a fare da mediatori/facilitatori linguistici volontari durante l’iter di identificazione degli accolti presso l’Hub.

La coordinatrice del corso di laurea magistrale in interpretazione del campus di Forlì, vista la disponibilità offerta in blocco da tutti gli studenti russisti del suo corso e consapevole dell’impatto emotivo che l’esperienza avrebbe potuto avere per loro, ha deciso di mettersi in contatto con Sipem SoS E.R. con la richiesta di supportare gli studenti durante le attività di interpretariato messe in campo in quella fase.


Nell’incontro preliminare tenutosi tra la coordinatrice del Corso di Studi e delle psicologhe di Sipem SoS E.R., si è immaginato che l’impatto emotivo dell’esperienza, seppur desiderata e potenzialmente coerente con le mansioni lavorative future degli studenti coinvolti, avrebbe potuto far emergere un rischio concreto di disaffezione al profilo professionale scelto nel percorso di studi ancora in corso, a causa del carattere di straordinarietà dell’intervento che veniva avanti, estremamente inusuale tra le esperienze solitamente proposte dall’Università.


Il progetto, unico nel suo genere, affianca due mondi, quello dell’emergenza e dell’università, molto distanti per natura, ma che grazie a un pensiero protettivo hanno potuto incontrarsi con uno scopo di accoglienza emotiva e di prevenzione della traumatizzazione vicaria, che spesso coinvolge il mondo dei soccorritori.

In questo scenario, gli studenti coinvolti sono stati considerati allo stesso modo di chi opera in ruoli di soccorso sul campo e l’intervento di supporto proposto dalle psicologhe di Sipem SoS E.R. ha avuto come focus l’attenzione alla salute psicologica dei soccorritori, favorendo lo sviluppo di strumenti di coping che potessero prevenire e contenere eventuali rischi di inficiare i percorsi di studio in cui i volontari erano coinvolti al momento della realizzazione degli interventi realizzati all’Hub.


Le psicologhe di Sipem SoS E.R., di cui una esperta in contesti di gruppo e l’altra in mediazione culturale in ambito clinico, hanno valutato di poter rispondere alle sollecitazioni attraverso la creazione di uno spazio che potesse rappresentare un’azione di vicinanza concreta e allo stesso tempo di contenimento dei rischi connessi all’esperienza, attraverso l’utilizzo dello strumento del debriefing psicologico.

Gli incontri sono stati realizzati a cadenza quindicinale tra marzo e maggio 2022.


La scelta dell'uso del debriefing psicologico

Il debriefing è una metodica introdotta per la prima volta durante la seconda guerra mondiale dal comandante delle forze armate U.S, S.L.A Marshall.

Il suo primo utilizzo fu per mettere in luce gli eventi successi in combattimento. La sessione d'incontro avveniva con un gruppo ristretto di soldati superstiti guidata da un ufficiale di grado superiore immediatamente dopo il combattimento. Grazie a questi incontri si riusciva a creare una comunicazione tra i soldati e a ricreare il gruppo che si allontanava durante la battaglia. Con questi interrogatori si riuscì a verificare come gli stessi eventi vissuti dai soldati venivano interpretati in maniera completamente diversa dando connotazioni disomogenee. Fu a partire da questa osservazione che si focalizzò l'attenzione di psicologi e psichiatri sul debriefing. Con la guerra in Corea e in Vietnam psicologici e psichiatri misero a punto la tecnica di debriefing come supporto ai soldati; il tutto era sostenuto dall'idea che parlare dell'esperienza aiutasse il recupero psicologico.

Negli anni successivi, la metodica fu messa a punto anche in altri contesti in cui fosse necessario alleviare i sintomi dello stress. Con il passare del tempo le procedure di Debriefing furono allargate e, con successo, portate anche nelle scuole, nelle banche, negli ospedali e in altri ambienti comunitari.

Il debriefing psicologico è, quindi, un procedimento strutturato che serve ad aiutare i superstiti e i soccorritori a comprendere ciò che è accaduto per poter gestire al meglio gli eventi futuri. Il compito di mitigare lo stress di questi operatori è una componente vitale dell’aiuto psicologico nelle emergenze e può essere organizzato non solo come intervento precoce sul luogo e verifica dell’aiuto successivo, ma soprattutto come processo continuo di prevenzione per dare ai soccorritori elementi per agire e non subire gli effetti di questo stress.

È una tecnica di pronto soccorso emotivo, organizzato dopo 24-76 ore dall'esposizione all'evento traumatico. È una procedura di gruppo che coinvolge individui che sono stati esposti allo stesso evento e comprende sia una fase di scambio delle informazioni sui fatti dell'evento, sia la condivisione delle risposte emozionali. Costituisce un'opportunità per imparare dagli altri e per modificare opinioni pre-costituite. La procedura di debriefing maggiormente descritta in letteratura è il Critical Incident Stress Debriefing (CISD).


Nella situazione specifica descritta in questo articolo, il debriefing ha avuto la funzione di tenere monitorate le condizioni degli studenti dando loro la possibilità di confrontarsi con i colleghi sui vissuti emersi durante i turni di lavoro, potenzialmente traumatici, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo di esperienze.


Il gruppo è inteso quindi come risorsa. È all’interno del gruppo che si gestiscono le ricadute emotive che l’attività può comportare: l’eccessiva responsabilizzazione di fronte ad un intervento, l’accoglimento della sofferenza altrui e propria, l’accettazione del fatto che esistono problemi cui, non sempre, si riesce a dare immediata soluzione. Il gruppo, in quanto luogo di confronto, pianificazione e riesame degli interventi, consente alle squadre di sviluppare una capacità di valutazione e autovalutazione del lavoro svolto. La valutazione diventa, a sua volta, uno strumento di apprendimento in itinere, che consente di orientare l’azione e attenuare eventuali effetti negativi, oltre a rendere possibile la creazione di condizioni di riproducibilità, la comunicazione dei risultati e l’argomentazione delle loro validità.

Il lavoro di mediazione/interpretariato nell’HUB di Bologna

In molte parti d’Italia, si sono istituiti HUB per la primissima accoglienza dei profughi ucraini in fuga dalla guerra.


L’obiettivo era garantire alle persone che arrivano un unico punto nel quale poter:

effettuare un tampone con presa in carico degli eventuali positivi, oltre al test per la tubercolosi (con la collaborazione dell’Ausl);

poter certificare la presenza dei profughi sul nostro territorio (grazie al personale della Polizia di Stato);

offrire orientamento rispetto ai servizi del territorio (accoglienza abitativa, scuole, salute e altro) grazie allo sportello dei Servizi sociali del Comune.


Questo è il contesto in cui si sono trovati ad operare gli studenti di interpretariato e mediazione. Vi erano anche volontari della Croce Rossa Italiana come supporto all’accoglienza materiale dei profughi.


Gli incontri di debriefing

Sono stati svolti sei incontri della durata di un’ora e mezza circa. La partecipazione, molto alta al primo incontro, ha poi avuto un andamento oscillatorio in base ai turni lavorativi degli studenti.


Nell’analizzare a posteriori questi elementi, appare chiaro quanto gli incontri periodici realizzati con il gruppo di studenti sia mutato di forma e di significato nel corso dell’avanzare degli avvenimenti.

A un iniziale onda emotiva è stata via via sostituita una razionalizzazione dei margini d’intervento possibili in relazione ai contesti e alle situazioni che venivano avanti. Così se nei primi incontri emergeva un forte entusiasmo da parte degli studenti all’idea di essere presto chiamati per essere impegnati nelle attività di traduzione o mediazione linguistica, successivamente emergevano emozioni di varia natura: per alcuni un forte senso di frustrazione per il fatto di non essere più stati ricontattati a seguito di un primo momento valutativo da parte degli organizzatori degli interventi dell’HUB; in altri invece sentimenti di fatica, ansia o smarrimento causati dal fatto di aver preso parte ad incontri di mediazione linguistica con persone provenienti da zone di conflitto, essendosi improvvisamente accorti di non essere stati preparati alla gestione di quella complessità, in termini emotivi oltre che operativi.


Il tema delle competenze richieste a chi si offre volontario per questo tipo di intervento, è stato un elemento emerso fin dal primo incontro di debriefing. Nei contesti emergenziali spesso non si hanno troppe informazioni su “cosa aspettarsi una volta in campo”; occorre quindi tenere alta l’attenzione sul mantenimento di un buon livello di competenza in relazione al proprio ruolo. A questo proposito le psicologhe hanno scelto di proporre una riflessione agli studenti in relazione a quali strumenti questi riconoscessero come propri nello svolgimento della loro mansione. A partire da domande che riguardavano l’organizzazione delle attività, si sono fatte spazio domande relative al bagaglio lessicale da poter utilizzare nel lavoro di mediazione. Alcuni studenti hanno arricchito la riflessione teorica e altri, sono stati tranquillizzati dai colleghi che nei giorni precedenti erano stati inseriti nella turnistica dell’Hub sperimentandosi in un ruolo già attivo. A seguito di questo primo momento di riscaldamento sugli strumenti, ci si è dedicati alle aspettative/paure rispetto la “tenuta psicologica” di fronte a interventi così impattanti. Sono stati introdotti i concetti di stress dei soccorritori, di traumatizzazione vicaria e dell’importanza della squadra.


L’aspetto dell’identificazione ha permesso di lavorare sull’impatto emotivo personale di fronte alla sofferenza permettendo alle psicologhe di introdurre il tema delle emozioni dei soccorritori in generale e delle emozioni quando nel soccorritore scatta l’identificazione con la vittima.


Si sono offerti momenti di riflessione su quanto il gruppo possa essere d’aiuto per rimanere ancorati al proprio compito e di quanto sia anche necessario riconoscere i propri limiti per poter decidere di “lasciare il campo”. Agire sugli eventi a caldo, utilizzando il gruppo, facilita la possibilità che un soggetto possa meglio identificare i propri sentimenti, le paure condivise, i limiti personali avvertiti oltre le aspettative, le idee irrazionali e ciò che attiene al sistema di riferimento individuale.

Procedere in modo strutturato alla verifica dei sistemi di riferimento individuali con reazioni emotive tipo ansia, depressione, rabbia, autocommiserazione, procrastinazione può favorire l'opportunità di riprocessare più adeguatamente gli eventi soggettivamente più critici e pervenire, attraverso la mediazione del gruppo, a un più funzionale assetto psicologico.


L’idea di poter interrompere il proprio turno di lavoro è stato un tema approfondito perché il vissuto di alcuni studenti era la paura di dare un messaggio di sconfitta, di rinuncia o peggio abbandono di chi ha bisogno. Ci si è interrogati su quanto fosse opportuna la condivisione con i beneficiari dell’intervento dei propri stati d’animo e di difficoltà. Una studentessa ha dichiarato di essersi commossa in presenza di una donna per la quale stava svolgendo attività di mediazione linguistica e di come questa condivisione emotiva abbia poi permesso una maggiore fluidità nell’intervento. Un'altra, invece, ha dichiarato di essersi fatta sostituire durante il percorso di mediazione perché l’identificazione della beneficiaria dell’intervento con una sua parente, non le permetteva di rimanere concentrata. Queste due esperienze hanno aiutato gli studenti a comprendere come sia necessario il contatto con le proprie emozioni, di come non ci sia una modalità corretta in senso universale, ma di come ciascuno in base alla propria storia, al proprio vissuto, al ruolo che esercita, possa scegliere la strada più opportuna per svolgere il proprio lavoro.


Nel corso degli incontri successivi, ha iniziato a circolare una certa demotivazione perché molti studenti non erano stati convocati dall’Hub. A più di metà percorso la frustrazione degli studenti non convocati è diventata intensa stimolando quasi vissuti di esclusione in chiave paranoica. Il lavoro di gruppo è andato nella direzione di promuovere l’attivazione degli studenti per capire come fossero organizzati i turni dell’Hub, nel tentativo di dare spazio a emozioni negative che circolavano veloci tra gli studenti, alimentando la sensazione di impotenza ma senza produrre ipotesi di soluzione.

In questa fase è stato possibile per le psicologhe introdurre il tema dell’operare in contesti emergenziali che non solo cambiano in base alle fasi dell’emergenza ma soprattutto che necessitano del tempo necessario a potersi strutturare.


All’attivazione del progetto di debriefing, l’HUB era ai primi giorni di gestione dell’intervento, nella fase di distribuzione di compiti e responsabilità tra i vari enti coinvolti (ASL, Prefettura, Comune e Associazioni di volontariato).

La spiegazione offerta agli studenti di come i contesti si organizzano e riorganizzano in fase di emergenza, ha permesso lo sviluppo di una parte proattiva da parte degli studenti che hanno così potuto iniziare a pensare a quale ruolo potessero avere essi stessi sull’organizzazione. È stato un incontro molto intenso in cui si sono raccolte ed esplicitate le paure e l’ambivalenza del voler prendere parte all’esperienza da una parte e la paura di esserne segnati dall’altra.


Un altro aspetto centrale emerso quasi subito è stata la necessità di valutare quale lingua sarebbe stato più adeguato utilizzare per l’attività di mediazione. Anche tra gli studenti aveva iniziato a circolare una sensazione di disagio rispetto all’utilizzo della lingua russa e delle origini di alcuni dei mediatori. Rispetto a questo tema è stato fondamentale l’intervento di uno studente bielorusso che ha portato il suo vissuto personale sulle persecuzioni subite in patria, veicolando un’idea di stigma su ciò che viene considerato nemico. Questo ha permesso di rendere complessa e maggiormente sfumata la linea di demarcazione che indicasse una netta posizione da tenere e quali atteggiamenti di giudizio personale palesare per evitare che fossero agiti durante i turni di lavoro.


Con il passare del tempo gli studenti riportavano sentimenti meno angosciosi, in quanto l’organizzazione dei Servizi era nettamente migliorata e in una fase di emergenza secondaria, risultando quindi più sostenibile per la gestione delle attività.

L’aver costruito un buon clima di gruppo ha permesso agli studenti di supportarsi a vicenda per avere la certezza del turno coperto e potersi riprendere il proprio spazio personale come esperienza di sano confine.


Ulteriore elemento significativo è riconducibile all’estrema variabilità delle presenze durante gli incontri di debriefing. Cioè quanti studenti abbiano scelto di partecipare ad alcuni incontri e non ad altri, quasi a voler dire che il non sentire gli incontri come “obbligatori” ha concesso loro di valutare la mancata partecipazione come una opportunità di scelta della misura, in relazione al personale bisogno di supporto, quindi di un supporto che è stato vissuto come fortemente personalizzato.


La co-conduzione

La co-conduzione è di fondamentale importanza in contesti emergenziali, in cui la squadra, il collega, l’altro rappresentano un sostegno e un punto di riferimento.

Nei contesti di emergenza accade frequentemente di non conoscere i colleghi della squadra di intervento, quindi occorre cercare momenti di confronto stabilire una connessione significativa. Per fare questo, le due psicologhe, alla fine di ogni incontro si sono fermate per un confronto a due che ha permesso loro di riflettere sia sul gruppo sia sulle caratteristiche della co-conduzione.

La diversità di competenze, ma soprattutto la capacità di affidarsi l’una all’altra hanno permesso la creazione di una sintonia quasi immediata che si è tradotta in una conduzione molto fluida, capace di produrre un intervento efficace, integrato, equilibrato nella conduzione, che tenesse conto degli aspetti clinici necessari e dei vissuti emotivi a cui è stato garantito uno spazio di emersione.


Tale aspetto di cooperazione si è verificato anche tra gli studenti. Inizialmente la voglia di vivere l’esperienza negli studenti pareva esprimersi anche in un aspetto totalmente personale e di investimento professionale. Man mano che si è potuto approfondire il lavoro, come sopra descritto, si è sviluppato nel gruppo degli studenti un clima di cooperazione con aspetti di attenzione agli altri e di sollievo nel sentirsi anche sostituiti dagli altri nel loro lavoro; tali aspetti hanno generato un maggiore sollievo personale e di rafforzamento del senso di gruppo, di grande aiuto di fronte al compito degli hub e in particolare sui sentimenti generati a contatto con l’esperienza emergenziale.



A cura delle Dott.sse Debora Battani e Valentina Bellotti

L’emergenza mediata Debriefing con un gruppo di studenti interpreti e mediatori nell’Hub di Bologna